giovedì 17 maggio 2012

NEL GRATTACIELO OCCUPATO (CronacaQui 15/05/2012)

Camminano in via Galvani chiacchierando sottobraccio, e dall’aspetto sembrano due signore benestanti. All’ingresso della Torre Galfa alzano gli sguardi sulla cima, li perdono affascinate dalla vivacità degli occupanti, e poi una dice all’altra col dito puntato in su: «Io vorrei prendermi il ventesimo piano, là, sai che panorama ci dev’essere, cara?». Mi sono seduto a scrivere fra i tavoli malfermi dell’ufficio stampa di Macao, il collettivo di artisti che dal 5 maggio si è insediato nel ‘catorcio’ di 109 metri da tempo inutilizzato dalla Fondiaria Sai, in un frenetico viavai di cavi elettrici e volontari che si inseguono per creare e discutere progetti. Dalla parete a vetri che dà sul cortile sento le note di un pianoforte e gli applausi della folla di ragazzi che assistono al concerto. Sul lato opposto il gruppo dei giardinieri arreda coi fiori un’aiuola, a torso nudo sotto l’afa. Mi accorgo che, al di là di ogni legittima opinione sull’evento, questa folle idea di rianimare un grattacielo vuoto da anni, sproni la curiosità di passanti, turisti che fotografano lo stabile come fosse l’attrazione del viaggio e gente del quartiere. Da giorni a Milano c’è una protesta che ricorda Berlino e New York di un’altra epoca, un’azione che non si presta a giudizi sbrigativi. Oggi sono salito fino al ventireesimo dei trentuno piani, col medesimo gusto di esplorare in bici un luogo nascosto della città . Ai vari livelli, ancora spogli e polverosi di cemento, si tengono mostre e dibattiti per far rifiatare chi si avventura nella scalata. Da questa sommità i palazzi della finanza coi lussuosi orti in terrazza paiono giocattoli, e si dà del tu all’imponenza del Pirellone. Per una volta nessuno può guardarci dall’alto in basso.

venerdì 11 maggio 2012

L’ALTRA METÀ DEL GASOMETRO (CronacaQui 9/05/2012)

Il mio amico Antonio ha perso l’ultimo passante della notte in Bovisa, e adesso sfoga tutta la sua insofferenza per Milano. I cancelli automatici della stazione gli si sono serrati davanti, come avessero obbedito a un impeto vendicativo della città, che punisce chi la detesta. Così, sotto la pioggia incessante, ci dirigiamo per via Mac Mahon ad aspettare un tram, lui a piedi e io che trascino la bicicletta mentre lo accompagno. «Non ne posso più, qui la vita se le mangiano il lavoro e i trasporti, e se avanza del tempo cosa c’è da vedere in questo grigiore?», mi chiede con l’ombrello inclinato sopra le nostre teste, e mentre ascoltandolo penso che un paracqua invisibile lo porti con sé pure nelle giornate di sole, una benda nera sugli occhi che strozza le sue curiosità. Ci avviciniamo a Villapizzone, in uno scenario di cascine in degrado e reperti industriali immersi nel silenzio. Gli confesso che a me piace e vorrei tornarci l’indomani a scovare angoli suggestivi, ma risponde che nei paraggi desolati tuttalpiù possiamo imbatterci in un malavitoso intenzionato a derubarci. Piu in là, da un parco attiguo alla ferrovia, sentiamo propagarsi le voci dei canti e dei balli di una surreale festa di famiglie cilene, allegre alla luce fioca di pochi lampioni e nel contorno squallido della periferia. Mi sembrano creature dell’oscurità che animano i margini di Milano fino all’alba e poi spariscono, e divertito lo dico ad Antonio, che invece li reputa solo stranieri privati di spazi ricreativi autentici, esiliati qui dal latente razzismo diffuso. Così fra di noi il conflitto persiste, intanto che camminiamo taciturni e nervosi. Poi una scoperta in via Lambruschini ci viene in soccorso: la metà di un gasometro è dipinta sulla facciata di un palazzo, che copre l’impianto reale eretto sullo sfondo. Alla città che ognuno immagina ce n’è sempre un’altra sovrapposta, e la verità oscilla spesso fra due ipotesi sensate.

venerdì 27 aprile 2012

LA PIETÀ DELLA COSCA (CronacaQui 24/04/2012)

In mezzo al cortile c’è una statua della Madonna col Cristo morto e sanguinante tra le braccia. Intorno i magazzini e gli alloggi usati dai Cosco per i traffici d’armi e di droga della ‘ndrangheta, muri scrostati testimoni del rapimento e dell’atroce e infame uccisione della pentita Lea Garofalo, ex compagna del boss Carlo, nel 2009 torturata qui e poi sciolta nell’acido in un terreno di San Fruttuoso, nei pressi di Monza. Viale Montello è la frontiera tra la Chinatown milanese e l’area di Porta Volta. Del fatiscente stabile al civico numero 6 si è già scritto e detto molto. Di proprietà dell’Ospedale Maggiore, che per lungo tempo l’ha abbandonato per non spendere soldi in progetti di recupero, negli anni ’90 è stato invaso da occupanti abusivi. In quest’ondata d’ingressi illegali si è infilata pure la famiglia Cosco da Crotone, che ha fatto del vecchio edificio un fortino della delinquenza, subaffittando senza titoli decine di appartamenti a extracomunitari e gestendovi affari sporchi. A marzo scorso i capi del clan (Carlo e i fratelli Vito e Giuseppe) sono finiti all’ergastolo per l’omicidio Garofalo, ma nel palazzo la situazione è ancora di totale irregolarità. Sì, si è scritto e detto molto dei fatti di Viale Montello 6, ma niente su cosa ci si vede dentro. Così ho deciso di andarci, non speranzoso di spiare chissà che, ma per annotare i dettagli, a volte tragici quanto la cronaca. Su uno sfondo di cielo azzurro intenso del dopo temporale, che Milano pare Napoli o Marsiglia, si stagliano tre piani di ballatoi pericolanti, una processione di ringhiere arrugginite che circondano il cortile. Sullo spiazzo attraversato da cinesi con i carrelli carichi di merci, è posteggiato un furgone con una faccia cattiva disegnata sul portello posteriore. Sembra guardare con disprezzo la statua della Madre piangente al suo fianco col cadavere di Gesù. Davvero non c’è posto dove la Pietà poteva stare meglio.

giovedì 19 aprile 2012

IL LADRO CHE BENEDIVA LE BICICLETTE (CronacaQui 17/4/2012)

«E buttala via sta fetentona, deciditi! È vecchia, mezza arrugginita e fa un casino quando ci pedali che pare un’impastatrice». Col suo accento pugliese da cabaret, Franco il meccanico di Porta Vittoria, dopo l’ennesima riparazione alla mia cigolante Touring azzurra, vuole convincermi a rottamarla per acquistare un modello dei suoi. «Guarda che bellezza questa, è da corsa, ‘na cosa da fenomeni. Era di un pensionato che manco può stare in piedi, come nuova. La vuoi? Trecento euro».
È un emigrante all’antica col senso degli affari. In officina vende pure bottiglie di Bonarda impolverate, dipinti di un tale artista del luogo Zecca e trapassate edizioni del Codice civile. Qualche soldo poi se lo rigioca a carte insieme a un folcloristico gruppo di amici corregionali, su un tavolo improvvisato tra gli attrezzi e i materiali di scarto.
«Ho capito che tipo sei», mi fa vedendomi indeciso, «un risparmiatore! Ora contro il mio interesse ti spiffero qualche mercatino dove con una carta da cinquanta ci prendi una fuoriserie. Qui sti traffici per carità, alla larga, se mi beccano sai che figuraccia ci faccio io? Solo uno in trent’anni m’ha fregato a me, solo uno, sto disgraziato!».
Franco ossequioso sistema i freni a bacchetta di un cliente che chiama “l’avvocato”, e subito torna a raccontare. «Una volta entra qua con una bici un giovanotto che si lagnava, tutto piagnucolante. Mi dice: ‘La prego, mi dia ciò che vuole e la tenga, era della mia povera moglie defunta, io non riesco neanche a guardarla, il dolore dei ricordi è fortissimo’. Perciò mentre gliela pago per fare un’opera buona, questo mette una mano sul manubrio e con l’altra si fa il segno della croce. Poi solenne che pareva un vescovo, si cala e bacia la sella. Oh, sembrava un funerale! M’ha fatto così impressione sta cerimonia che manco l’ho rivenduta la bici. Mica potevo guadagnarci alle spalle della morta, no? Dopo un mese però sto ragazzo torna con una mountain bike bella nuova: ‘La prego ancora, è sua a buon prezzo, l’ha lasciata la mia cara zia scomparsa’. ‘Ah sì?’, gli faccio, ‘e quanti parenti ti schiattano a te, brutto fetentone disgraziato! Sei un ladro zozzone, vattene via che ti prendo a mazzate!’».
Se il mistico ladro che benedice le biciclette dovesse trafugare pure la vostra, sappiate quindi che non la recupererete più da Franco. In compenso sul sito www.rubbici.it c’è un archivio dei cicli rubati a Milano. In caso di furto segnalatelo inserendo una foto del mezzo. Io previdente sfrutto pure questo spazio su CronacaQui a vantaggio della mia Touring cigolante.

venerdì 13 aprile 2012

VENERDÌ ORE 18: FUGA DA MILANO (CronacaQui 10/4/2012)

Questa volta c’è pure la Pasqua nel mezzo e l’effetto si moltiplica. I pendolari del fine settimana abbandonano la città come se fosse una nave in affondamento, e si precipitano alle stazioni trascinando i trolley, riempiti la mattina a casa e portati in ufficio.
Quando si aprono in Centrale le carrozze della metropolitana, a botto ne esce l’ardita valanga di viaggiatori. Non si voltano e concentrati sondano lo spazio davanti per scansare ostacoli e immaginare lo slalom che li condurrà al binario.
In bicicletta, pedalando altrove, tutto ciò non si vede, ma ne arriva l’eco. Se l’abitudine è serpeggiare fra le strettoie del traffico intuendo le mosse di automobilisti e pedoni, in costante allerta di uno sportello che ci si para di fronte, quel metro di strada in più al semaforo, l’aria di un grammo meno pesante, si notano e rimandano a un fatto: è venerdì, l’esercito di lavoratori rubati da Milano alle provincie del Nord, si fa da parte per due giorni.
C’è chi ritorna in famiglia, il fidanzato che si ricongiunge alla sua metà o il giovane professionista senza amici per mancanza di tempo che scappa pure dalla solitudine.
Se da un lato svuotano un po’ la città lasciandola più vivibile a chi rimane, dall’altro ribadiscono l’indifferenza che nutre per Milano chi la frequenta perché qui ha un’occupazione e basta.
Vivono con il luogo un rapporto di convenienza economica privo di passioni e curiosità: il loro impegno in cambio dei soldi, non cercano esperienze diverse né sono disposti a dare qualcosa di sé lontani dalle scrivanie.
Eppure, ad ogni ritorno a casa, ci sarà una suggestione, un’immagine legata a questa metropoli che porteranno via insieme allo stipendio. Mi chiedo se sia la fermata dove aspettano il tram la mattina, la faccia del ragazzo che consegna le pizze a cena, la cassa del supermercato o qualcos’altro.

venerdì 30 marzo 2012

I BUCHI NERI DEVASTANO MILANO (CronacaQui 27/3/2012)

Ho visto un buco nero ad occhio nudo nel centro di Milano. Dicono che si creino soltanto in galassie distanti anni luce da noi, ovunque muoia una stella, e che servano radiotelescopi e antenne da milioni di euro per captarne l’esistenza. Io però lo giuro, ne ho trovato uno in fondo al tronco dei binari morti della stazione ferroviaria di Porta Genova, e l’ho persino fotografato con una macchina da quattro soldi, altro che costosi aggeggi astronomici.
Non ci credete, mi spiego meglio. Il buco nero è un tunnel che inghiotte un’epoca, accelera il tempo e catapulta gli avvenimenti nel futuro, distorcendo spazi e relazioni, giusto?
Se salite sul ponte pedonale verde che porta in via Tortona, guardando giù noterete che il settore destro dei binari della stazione è una coda di vecchie linee interrotte ai piedi di un muro di mattoni rossi. Oltre, subito a ridosso, si addensano dei giganteschi condomini di via Savona.


Un capotreno in pensione racconta che fino agli anni cinquanta da lì i convogli andavano in Centrale passando da Cadorna, ma poi il tratto fu dismesso per consentire la cementificazione della zona. Lui ricorda così, io però non ci credo.
Insiste e aggiunge che da quel lato, fra i nuovi appartamenti, è rimasto un piccolo casello giallo del collegamento scomparso, adesso abitato da un suo ex collega. È vero, l’ho scoperto, ma la famigerata antica linea per me non c’è mai stata. Quale insulso urbanista può averla chiusa lasciando in abbandono un’ala intera della stazione, qui nel cuore della città, per far tirare su tutt’intorno degli scatoloni di calcestruzzo a duecento metri dalla darsena?
Un simile scempio non è opera dell’uomo: lì, appena dopo l’antico casello e i binari morti, dove immagineremmo fischiare un treno a vapore per Vigevano e invece troviamo i palazzi del boom edilizio, c’è un maledetto buco nero. Ha capovolto il tempo e deformato lo scenario.
Così, quando scoviamo certi obbrobri in giro per Milano, non accusiamo d’impulso costruttori senza scrupoli o politici che intascano mazzette. È colpa dei buchi neri: ci sono ad Andromeda e pure in Porta Genova.

venerdì 23 marzo 2012

L’INQUIETANTE EX DAZIO DEL NAVIGLIO (CronacaQui 20/3/2012)

Ne osservo il retro dai giardini di via Barsanti e mi tornano alla mente i due giovani antagonisti che nell’autunno 2009, precipitandosi giù dai ballatoi, mi inseguirono minacciosi fino alla piscina Argelati per obbligarmi a cancellare le fotografie del palazzo: «Siamo occupanti, mica poi te ne vai dai poliziotti a farci identificare?».
Non è pero per questo ricordo che l’antico dazio di Ripa di Porta Ticinese 83, sulla riva sinistra del Naviglio Grande, mi ha sempre suscitato timore: c’è una ragione più oscura che non afferro.
È un edificio a sé stante di proprietà del Demanio, isolato dalla schiera di case di ringhiera lungo l’alzaia. Ha un alto settore centrale con due ali dal tetto spiovente che sembrano le torri di un castello transilvanico, e i vecchi magazzini ai lati che abbracciano il cortile, nascosto da un muretto. Da anni, dopo la dichiarazione di inagibilità del Comune, è oggetto di una sequenza d’occupazioni di gruppi politici militanti e successivi sgomberi, un’altalena che non accenna a fermarsi per mancanza di idee sul recupero dello stabile. Adesso, dopo alcuni arresti, c’è soltanto qualche rom e una piccola comunità di punk. Si vedono camminare fra i balconi esterni dei quattro piani come fossero sentinelle. Se ti fermi a guardarli da lontano ti notano, sospettosi come i loro predecessori. Ognuno è impegnato a far qualcosa, ma tutte le azioni sembrano coordinate, obbedienti a un misterioso disegno generale.
Così arroccato e inavvicinabile, il palazzo pare un lontano pianeta dentro Milano, un microcosmo dove accadono fatti ignoti su cui è meglio non indagare.
In fondo certi ruderi abbondanati nelle città sono come i ricordi passati che vorremmo rimuovere dalla memoria: tornarci col pensiero fa star male. Ecco perché quando guardo l’ex dazio e cerco di capirci di più, sento un senso di paura che mi arresta.