Quando si aprono in Centrale le carrozze della metropolitana, a botto ne esce l’ardita valanga di viaggiatori. Non si voltano e concentrati sondano lo spazio davanti per scansare ostacoli e immaginare lo slalom che li condurrà al binario.
In bicicletta, pedalando altrove, tutto ciò non si vede, ma ne arriva l’eco. Se l’abitudine è serpeggiare fra le strettoie del traffico intuendo le mosse di automobilisti e pedoni, in costante allerta di uno sportello che ci si para di fronte, quel metro di strada in più al semaforo, l’aria di un grammo meno pesante, si notano e rimandano a un fatto: è venerdì, l’esercito di lavoratori rubati da Milano alle provincie del Nord, si fa da parte per due giorni.
C’è chi ritorna in famiglia, il fidanzato che si ricongiunge alla sua metà o il giovane professionista senza amici per mancanza di tempo che scappa pure dalla solitudine.
Se da un lato svuotano un po’ la città lasciandola più vivibile a chi rimane, dall’altro ribadiscono l’indifferenza che nutre per Milano chi la frequenta perché qui ha un’occupazione e basta.
Vivono con il luogo un rapporto di convenienza economica privo di passioni e curiosità: il loro impegno in cambio dei soldi, non cercano esperienze diverse né sono disposti a dare qualcosa di sé lontani dalle scrivanie.
Eppure, ad ogni ritorno a casa, ci sarà una suggestione, un’immagine legata a questa metropoli che porteranno via insieme allo stipendio. Mi chiedo se sia la fermata dove aspettano il tram la mattina, la faccia del ragazzo che consegna le pizze a cena, la cassa del supermercato o qualcos’altro.
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