venerdì 30 marzo 2012

I BUCHI NERI DEVASTANO MILANO (CronacaQui 27/3/2012)

Ho visto un buco nero ad occhio nudo nel centro di Milano. Dicono che si creino soltanto in galassie distanti anni luce da noi, ovunque muoia una stella, e che servano radiotelescopi e antenne da milioni di euro per captarne l’esistenza. Io però lo giuro, ne ho trovato uno in fondo al tronco dei binari morti della stazione ferroviaria di Porta Genova, e l’ho persino fotografato con una macchina da quattro soldi, altro che costosi aggeggi astronomici.
Non ci credete, mi spiego meglio. Il buco nero è un tunnel che inghiotte un’epoca, accelera il tempo e catapulta gli avvenimenti nel futuro, distorcendo spazi e relazioni, giusto?
Se salite sul ponte pedonale verde che porta in via Tortona, guardando giù noterete che il settore destro dei binari della stazione è una coda di vecchie linee interrotte ai piedi di un muro di mattoni rossi. Oltre, subito a ridosso, si addensano dei giganteschi condomini di via Savona.


Un capotreno in pensione racconta che fino agli anni cinquanta da lì i convogli andavano in Centrale passando da Cadorna, ma poi il tratto fu dismesso per consentire la cementificazione della zona. Lui ricorda così, io però non ci credo.
Insiste e aggiunge che da quel lato, fra i nuovi appartamenti, è rimasto un piccolo casello giallo del collegamento scomparso, adesso abitato da un suo ex collega. È vero, l’ho scoperto, ma la famigerata antica linea per me non c’è mai stata. Quale insulso urbanista può averla chiusa lasciando in abbandono un’ala intera della stazione, qui nel cuore della città, per far tirare su tutt’intorno degli scatoloni di calcestruzzo a duecento metri dalla darsena?
Un simile scempio non è opera dell’uomo: lì, appena dopo l’antico casello e i binari morti, dove immagineremmo fischiare un treno a vapore per Vigevano e invece troviamo i palazzi del boom edilizio, c’è un maledetto buco nero. Ha capovolto il tempo e deformato lo scenario.
Così, quando scoviamo certi obbrobri in giro per Milano, non accusiamo d’impulso costruttori senza scrupoli o politici che intascano mazzette. È colpa dei buchi neri: ci sono ad Andromeda e pure in Porta Genova.

venerdì 23 marzo 2012

L’INQUIETANTE EX DAZIO DEL NAVIGLIO (CronacaQui 20/3/2012)

Ne osservo il retro dai giardini di via Barsanti e mi tornano alla mente i due giovani antagonisti che nell’autunno 2009, precipitandosi giù dai ballatoi, mi inseguirono minacciosi fino alla piscina Argelati per obbligarmi a cancellare le fotografie del palazzo: «Siamo occupanti, mica poi te ne vai dai poliziotti a farci identificare?».
Non è pero per questo ricordo che l’antico dazio di Ripa di Porta Ticinese 83, sulla riva sinistra del Naviglio Grande, mi ha sempre suscitato timore: c’è una ragione più oscura che non afferro.
È un edificio a sé stante di proprietà del Demanio, isolato dalla schiera di case di ringhiera lungo l’alzaia. Ha un alto settore centrale con due ali dal tetto spiovente che sembrano le torri di un castello transilvanico, e i vecchi magazzini ai lati che abbracciano il cortile, nascosto da un muretto. Da anni, dopo la dichiarazione di inagibilità del Comune, è oggetto di una sequenza d’occupazioni di gruppi politici militanti e successivi sgomberi, un’altalena che non accenna a fermarsi per mancanza di idee sul recupero dello stabile. Adesso, dopo alcuni arresti, c’è soltanto qualche rom e una piccola comunità di punk. Si vedono camminare fra i balconi esterni dei quattro piani come fossero sentinelle. Se ti fermi a guardarli da lontano ti notano, sospettosi come i loro predecessori. Ognuno è impegnato a far qualcosa, ma tutte le azioni sembrano coordinate, obbedienti a un misterioso disegno generale.
Così arroccato e inavvicinabile, il palazzo pare un lontano pianeta dentro Milano, un microcosmo dove accadono fatti ignoti su cui è meglio non indagare.
In fondo certi ruderi abbondanati nelle città sono come i ricordi passati che vorremmo rimuovere dalla memoria: tornarci col pensiero fa star male. Ecco perché quando guardo l’ex dazio e cerco di capirci di più, sento un senso di paura che mi arresta.

LA FONTANA "STRANIERA" DI VIA PADOVA (CronacaQui 13/3/2012)

A volte Milano stecca come un tenore. La musica fra strade e isolati è sempre la stessa: sirene lampeggianti coi motori d’auto in sottofondo, e un coro di palazzi che sembrano prigioni, e di visi stanchi sui marciapiedi.
Poi però d’improvviso, nel frastuono di questa cantilena, si imbocca un itineario sconosciuto, o curiosi apriamo gli occhi in attesa del tram, o in coda al semaforo per recarci in ufficio, e ci appare un insolito angolo che stona, che rompe lo schema razionale della metropoli.
Infatti non serve visitare musei e chiese antiche per scoprire l’altra voce di Milano. Le sue affascinanti stranezze sono annerite dallo smog e son fatte di cemento e d’acciao come la città brutta.
All’incrocio fra le vie Padova e Angelo Mosso, c’è una piazzetta munita di panchine e giochi per bambini, progettata senza pretese, ma solo per la necessità sociale di creare uno spazio di svago nel quartiere che cresceva. In mezzo si trova una fontana senza senso: un muretto di ordinari mattoni rossi da dove pendono diciassette rubinetti spenti, identici fra loro e simili a quelli che tutti abbiamo in casa. A vederla così verrebbe da pensare che un tempo quando gettava acqua poteva servire a dissetare i passanti, o a lavare i panni. Invece davanti c’è una vasca rettangolare che impedisce di raggiungerla, e sembra persino dotarla di un qualche attributo estetico. Però lo sfacciato pragmatismo di quella serie di diciassette rubinetti uguali neutralizza pure l’ipotesi decorativa. A che serve quindi? Per cosa è stata costruita?
In via Padova, la strada degli emigranti, anche questa fontana è straniera: è lì, vorrebbe dirci qualcosa, ma il suo linguaggio ci confonde. Ogni tanto, qualcuno spazientito di non capire, quasi per costringerla a riprendersi un comune senso di sorgente, le gira intorno e la usa come pisciatoio.

venerdì 9 marzo 2012

LAMBRATE: LA BICI CHE SCHIACCIA LE AUTO (CronacaQui 6/3/2012)

In certi giorni e senza un perché, si crea un’alchimia speciale fra i copertoni e l’asfalto, l’aria che punge, i muscoli e i pensieri del ciclista, che la bici va da sé e non vien mai voglia di fermarla. Scendere per un caffè o una passeggiata esplorativa in un posto sconosciuto, è come tapparsi le orecchie nel mezzo di un bel racconto al bar.
Quando prende quest’armonia, Milano è una galleria di immagini e piccole storie che scorrono a quindici all’ora, nel tempo di uno scatto e una frenata.
Così da Via Melchiorre Gioia svolto per Piazza della Repubblica, e ad un incrocio, fra due colonne d’auto, c’è un uomo che gioca a tennis contro il muro di un palazzo, dove campeggia enorme un cartellone pubblicitario di biancheria intima femminile. Il botto delle pallettate si mischia ai clacson, e lui è vestito da torneo, estraneo al contesto di semafori e smog che lo assedia: fascia elastica per i capelli, calzettoni e impeccabile completo bianco.
Proseguo oltre Porta Venezia e in Via Maiocchi sento una musica da banda paesana. Mi figuro una festa di quartiere, ma poi su un marciapiede trovo una coppia di nomadi con la fisarmonica e la tromba, che strimpellando “Fischia il vento” ricevono offerte dalla gente affacciata sui balconi. Ogni tanto compare una ragazza e il duo improvvisa una serenata.
L’itinerario continua e le ruote mi sbalzano da un luogo a un altro, in un’altalena di flash e suggestioni che sembrano scollegate. Eppure esiste in città una sola immagine che raccoglie tutti gli scenari avvistati sui pedali durante un giro, ed esprime quel senso di libertà che si prova scavalcando il traffico. È un murale dell’artista Blu dipinto in Via Predil, sulla massicciata della Stazione di Lambrate. Una bicicletta gigante schiaccia le macchine come fossero scatole di tonno e si apre la strada che vuole.

venerdì 2 marzo 2012

MILANO COPIA MILANO (CronacaQui 28/2/2012)

Le città quando nascono sono come le persone: ciascuna è diversa dalle altre. Cambia il riflesso del cielo sui palazzi, la forma dei viali e il carattere degli abitanti. Poi, come se quell’inventiva primordiale rimanesse strozzata dalla stessa routine di filobus e pause pranzo che aliena gli individui, la fantasia dei progettisti si esaurisce e le idee degli artigiani, dei designer e dei giardinieri, perdono freschezza insieme all’aria che diventa irrespirabile. Così, in assenza di spinte originali, per espandersi i nuclei urbani si copiano fra di loro. Amsterdam ha rubato i canali d’acqua a Venezia, e Torino i portici a Bologna. Esistono rifacimenti della Torre Eiffel a Tokyo, Londra, Praga, Las Vegas e persino in Guatemala. Pigra e a corto di creatività, nel dopoguerra Nizza acquistò per la via litoranea gli splendidi lampioni in stile liberty del lungomare di Reggio Calabria.
Eppure c’è una città che non ne ricorda altre e ha fatto tutto da sé: Milano. Non capita di star qui e sentirsi in un posto diverso. Pure quando ci si prova con una gita al parco o all’idroscalo, il rimbombo improvviso di un motore o la frenesia di un passante spezzano le illusioni. Anzi, Milano è talmente esclusiva che copia se stessa. Le strade, ad esempio, sono così indistinte che per non perdermi in bicicletta uso i punti cardinali, come fossi nell’oceano privo di riferimenti all’orizzonte.
Chissà perché ad ogni angolo Milano replica Milano. Forse teme di essere dimenticata un giorno da pendolari ed emigranti che vengono qui per soldi senza amarla, e ha bisogno di evocarsi continuamente. Come in via Palazzo Reale, dove le finestre di una casa riappaiono dipinte sulla medesima facciata.