martedì 28 febbraio 2012

LA CHIESETTA SULLO SPARTITRAFFICO (CronacaQui 21/2/2012)

Quando si mostra Milano a un amico, inevitabile come il tramonto capita l’istante in cui domanderà: «Perché è così moderna?». Lo avete condotto al Duomo mitragliando aneddoti e nozioni su ciascun palazzo medioevale trovato nel percorso. Vi siete spinti sino all’antico quartiere romano a scovare raffinate incisioni in latino sulle pietre. Eppure a un tratto lui vi guarderà come se steste barando, come se questa città di vestigie e monumenti fosse un papocchio di cartapesta messo su il giorno prima per non deluderlo, e comunque chiederà: «Sì, ma perché è così moderna?». Gli parlerete a ragion veduta di bombe, di ricostruzione post-bellica, ma rimarrà in entrambi un fastidioso sapore di mezza verità.
In effetti a Milano sembra esserci un astratto impulso di rinnovamento interiore, qualcosa di inspiegabile che sta al di fuori delle cronologie e dei manuali di storia e la rende tale. Un poderoso spirito d’avanzata che ingloba inesorabile i resti del passato o li svuota di autorità, elevando a unica città credibile quella del progresso, nel bene e nel male.
Soltanto un’opera in città gode del rispetto quasi ossequioso di quest’innato moto di cemento e avanguardie, ed è una chiesetta incastrata nello spartitraffico di via Lorenteggio. Si chiama Oratorio di San Protaso.


Avvistandone l’abside in bicicletta mi era parso un deposito ANAS da vecchia strada statale. Fu edificato nel secolo XII quando intorno c’era la campagna, poi l’espansione di Milano arrivò a stritolarlo tra le due inquinatissime corsie.
Adesso penserete come si fa a sostenere che proprio questo antico mausoleo confinato in un marciapiede sia stato risparmiato dalla valanga urbana. Vi domanderete dove sta l’armonia tra la religiosità di San Protaso e l’asfalto che lo circonda. La spiegazione è semplice: a Milano c’è il culto dello spartitraffico.

ITINERARI NELLA CITTÀ INVISIBILE (CronacaQui 14/2/2012)

Ci sono percorsi sconosciuti alle mappe, che non collegano quartieri o circonvallazioni, ma l’altalena degli stati d’animo di un abitante. Non sono fatti di marciapiedi e linee del tram, bensì di ricordi, pentimenti e desideri futuri. Così, a Milano, si sovrappongono tre milioni di invisibili itinerari sentimentali. In segreto, la notte tornando a casa, il giovane innamorato sosta alla base dell’antenna RAI di Corso Sempione a giurarle che avrà cura della sua ragazza, perché è convinto che il grosso traliccio tutto sorvegli da lassù e punisca i traditori via radio ovunque si infrattino. L’immigrato nostalgico contempla i binari dal ponte della Stazione Garibaldi, pensando che quei ferri uniscono il mondo e arrivano pure fino a casa sua. Per ciascuno di noi ogni emozione è un punto nella città reale, come le fermate del metrò.
Chiunque sulle strade di Milano avrà notato passeggiare una categoria di anziani solitari, senza meta apparente. Si crede che ammazzino il tempo fino all’ora di cena. Forse invece è il loro quotidiano viaggio nell’impalbabile metropoli delle passioni. Quando spiano le opere di un cantiere dal buco di una lamiera, è come se sospettosi origliassero di nascosto un dialogo fra la moglie e un’amica, in attesa di carpire la confidenza che gli faccia bene o male al cuore. Un nuovo centro commerciale oltre le ruspe, potrebbe infatti ferire la sensazione ispirata da quel posto: la felicità per la nascita di un nipote, le memorie d’infanzia.
Una volta un vecchio l’ho visto seduto ai tavoli esterni di un’osteria chiusa da anni, vicino al Lorenteggio. Guardava i giganteschi edifici sullo sfondo. Nell’ex locanda si immaginava bambino, era il principio della sua esistenza, ma nei moderni fabbricati oltre il piazzale, così fuori dalla sua epoca, sentiva la fine. Lo scenario fra i due luoghi lo associava quindi al tempo trascorso in questa terra: c’erano asfalto, arbusti secchi e pozzanghere. Eppure credeva di aver passato una vita migliore.

QUELL’ENORME PASSIONE D’ASFALTO (CronacaQui 7/2/2012)

Appena svolto in Via D’Adda dal Naviglio Grande mi appare un’amorfa chiazza tricolore dipinta sulla strada, che spezza la monotonia del manto bianco che ha coperto la città in questi giorni. Poi avanzo e scopro uno scudetto gigantesco davanti alla carrozzeria “Inter”, indicata da un’insegna nerazzurra fregiata di trofei luminosi. Ficcata dentro a un cumulo di neve c’è persino una bandiera della Beneamata, che pare un vessillo alpino. Manco da Appiano Gentile fossero partiti alla conquista dell’Everest.


Entro in officina e chiedo al titolare quanti soldi d’imposta comunale paghi per quest’opera stradale grande come dieci posti auto. «Zero assoluto» – risponde il signor Fiamberti – «È un omaggio di anonimi tifosi alla nostra storica fede interista, realizzato di notte al termine del glorioso campionato 2008/2009. Dai tempi di mio padre giocatori e dirigenti si confessano qui, al suono di lamiere martellate. Persino Massimo Moratti viene a trovarci per chiacchierare di pallone, per confrontare le sue idee. I segreti societari nascono in carrozzeria e finiscono in consiglio d’amministrazione. Adesso i Vigili urbani vogliono cancellare il megascudetto per abusivismo, ma io spero in un condono, questa è arte spontanea». Poi Fiamberti innalza il tono della conversazione e mi parla di un imprecisato “spirito Inter”, che anima il vero tifoso e lo rende migliore nella vita: come professionista, amico e amante. «È un flusso etereo che dona stile e gentilezza in ogni situazione, anche quando fai la spesa». Al termine dell’intervista misuro coi passi le dimensioni del tricolore d’asfalto: 11 metri per 7. Immaginatelo cucito in proporzione su casacche grandi come Piazza Duomo. Avremmo lo stadio di San Siro confinante con Novara, l’erba del prato alta sei metri e Gulliver Campione d’Italia.

ASSALTO ALLA TORRE…VELASCA (CronacaQui 24/1/2012)

Ci sono luoghi che fanno l’immaginario di una metropoli, eppure sembrano invalicabili ai più. Per chi identifica il suo carattere e la forma dei propri desideri con le geometrie e gli odori della città, trovare un divieto d’accesso a un vicolo privato o a un pittoresco cortile interno, è come dover rinunciare a un lato di sé stessi, o a una bella amicizia.
Voi, ad esempio, siete mai saliti sulla Torre Velasca?
A forza di vederla svettare sulla coltre nebbiosa e nelle scene di memorabili film come “Milano calibro 9”, mi è sorta la curiosità di esplorarla dentro e capire cosa si contempli da lassù.
Purtroppo, tra i 106 metri dell’edificio, si trovano soltanto abitazioni e studi professionali, niente che si possa raggiungere senza appuntamento inventando una banale scusa per eludere i sorveglianti in portineria.
Se però ci si finge viaggiatori in partenza verso isole remote, per noi l’ingresso al quindicesimo piano è spalancato: lì infatti c’è il Consolato delle Mauritius.
Io ho fatto così, chiedendo anche di passare dalle scale per avventurarmi nella pancia del gigante. Sono strette e spoglie, neanche pare di arrampicarsi in un famoso grattacielo. L’immenso vuoto tra le rampe è invisibile, coperto da pannelli anti-caduta, e ad ogni pianerottolo una telecamera a circuito chiuso mi scoraggia a fotografare. Comincio a sentirmi inghiottito da qualcosa.
Poi entro nel Consolato, e l’accogliente spirito del piccolo appartamento, il giallo e il verde della bandiera mauriziana e il bel sorriso di una volontaria della Croce Rossa in attesa, rimuovono la claustrofobia provata sulle scale.
Gli uffici sono vuoti, sento solo un’impiegata parlare di visti e permessi di soggiorno saltando tra l’inglese e il francesce. Ne approfitto e mi infilo in una stanza per guardare Milano da queste finestre: è bella. Scendo con l’ascensore e penso a uno scatto originale da portarmi via dalla Torre. Facile, la pulsantiera: è alta quanto me.

IL MUSEO DELLA MACCHINA DA SCRIVERE (CronacaQui 17/1/2012)

Non mi ero mai accorto delle analogie tra la bicicletta e la macchina da scrivere. Entrambe necessitano di un’interazione fra l’uomo e gli ingranaggi. Entrambe, al cospetto delle rapide tecnologie moderne, portano con sé un implicito elogio della lentezza.
Ci ho pensato la settimana scorsa in Via Menabrea scoprendo per caso il “Museo della macchina da scrivere”, al numero 10.
Il fondatore Umberto Di Donato, proprietario di una collezione con più di mille apparecchi, mi accompagna tra gli scaffali, dove le rare Remington, Triumph e Olivetti, esposte insieme ad antiche locandine pubblicitarie, fanno di questo spazio un qualcosa di bello per gli occhi.


«Nel 1959, appena arrivato a Milano da Caserta per lavorare alla Comit, acquistai una Lettera 22, la stessa che usava Indro Montanelli. La scelsi perché il mio compagno di stanza era un agente della Olivetti e me la procurò a prezzo agevolato. Così ricevetti anche uno dei pochi esemplari del 33 giri “Musica per parole”, dove il grande Mario Soldati spiegava come battere con tutte e dieci le dita. Ai tempi chi sapeva scrivere a macchina aveva un impiego e la libertà».
Mentre Di Donato mi mostra i suoi modelli più cari, rimarcando che ognuno «evoca l’anima di chi l’ha posseduto», il suo tono si fa aulico e preciso. Le parole sembrano uscire dal rullo di una Lexikon 80 di un vecchio professore di lettere, senza una sbavatura sulla carta. Capisco che quella Lettera 22 è stata un’amica che lo ha aiutato ad affermarsi nel lavoro e a vivere a Milano con orgoglio provenendo dal Sud.
«L’anima di questa macchina deve essere finita all’inferno», dice indicando la Clear Tech usata in un carcere texano dal condannato a morte Greg Summers, donata al museo da Amnesty International.
Poi ce n’è pure una cinese, con una testina mobile che seleziona l’ideogramma in una matrice di quattromila minuscoli e indistinguibili elementi. «Sa che in Cina per istruire un dattilografo ci vogliono due anni? L’ho persino portata in Paolo Sarpi per chiedere a qualcuno come funziona, ma nessuno ha potuto aiutarmi».

L’EX FABBRICA DELLA LAMBRETTA (CronacaQui 10/1/2012)

Dall’esterno dei tre giganteschi capannoni a volta, nessun indizio segnala che si sta entrando in uno dei vecchi templi dell’industria italiana. Via Raffaele Rubattino 75, oltre la Tangenziale Est: qui fino al 1971 si produceva la Lambretta.
Scavalco il recinto e mi incammino, fra siringhe, ciottoli e cartocci di botti di capodanno, alla ricerca di tracce di quell’epopea.
Una ragnatela di crepe spacca l’asfalto del piazzale. Tra la breccia e i mattoni crollati dalle facciate dei depositi si contorcono i cavi arrugginiti dei pilastri atterrati dalle ruspe.


Macerie sulle macerie: il cemento frantumato affossa i lastroni d’alluminio incastrati alle travi di legno spezzate dalle frane. Distante, oltre una spianata coperta di polvere e di arbusti, un’orchidea pende dalle maglie di una grata.
Scalciando fra pezzi di cartone umido marchiati “Innocenti” raggiungo una parete grigia nello spogliatoio degli operai. Striscio il pollice su quattro motociclette schizzate col gesso, e l’intonaco scrostato si ammucchia sulla punta e sui lacci di vecchi scarponi da lavoro col cuoio scucito e il tacco rialzato.
Lungo un corridoio freddo al piano terra della palazzina degli uffici calpesto timbri, documenti contabili e cartoline in bianco e nero sparse sul pavimento ruvido e traballante. Salgo le scale coi parapetti che penzolano sulla tromba e ad ogni passo il vetro delle finestre rotte si sminuzza sotto le mie scarpe.
Esco in cortile e mi perdo tra cumuli di detriti nascosti da cespugli. All’improvviso, poco davanti a me, un grosso fagiano scatta in aria come un petardo e vola via strepitando. Spaventato capisco che la natura ha iniziato a riprendersi ciò di cui l’uomo non si è curato, e non ammette nuove intrusioni. Così mi sento di troppo: riprendo la bici e torno in città.

DUE POPOLI, DUE ARCHI, UN CIRCOLO (CronacaQui 3/1/2012

Non servono i trattati di antropologia per stabilire le affinità tra due popoli, basta un arco. Lo dimostra il cartello che ho trovato affisso alla porta di ingresso del circolo ‘Canusium’, nel cuore della Barona, tra le vie Biella e Bonaventura Zumbini.


I milanesi hanno l’Arco della Pace del 1838, i canosini quello di Traiano del II secolo d.C., e nonostante l’abisso cronologico fra i due monumenti il gemellaggio è fatto: circolo ricreativo et sportivo sia. “Quest’organizzazione è composta da lombardi e pugliesi in parti uguali, cinquanta e cinquanta. È un esempio di armonia e contaminazione tra Nord e Sud”, mi spiegano impegnati in un giro di briscola dei soci all’interno. Beh, all’armonia voglio crederci, ma al fifty-fifty no; immaginate un circolo ‘Mediolanum’ a Canosa di Puglia: ad eccezione di pochi e accesi tifosi
rossoneri, con difficoltà raccoglierebbe le adesioni dei locali.
Poi faccio un giro della zona in cerca di informazioni sulla comunità canosina della Barona, e incontro il parroco Don Roberto Rondanini sul sagrato della chiesa. “La massima concentrazione c’è stata negli anni ’60, quando ancora le officine del Naviglio Grande erano attive, grosse realtà come la Richard Ginori e le Cartiere Burgo, dove si producevano le bobine per la stampa del Corriere della Sera. Tuttavia l’identità dei canosini a Milano è rimasta forte. In parrocchia l’estate scorsa è giunto dalla Puglia il simulacro di San Sabino, il loro Patrono, che accompagnato dal sindaco, da tutto il consiglio comunale e da 3.000 compaesani residenti nel nord Italia, ha sfilato per due giorni tra le strade del quartiere portato in spalla dai fedeli. Si tratta di un raro fenomeno di pellegrinaggio all’incontrario, dove è il santo a raggiungere i propri devoti lontani”.

PINO QUAGLIARELLA, LA LEGGENDA DEI PELATI (CronacaQui 27/12/2011)

Un giorno smonteranno l’insegna, o i colori sbiadiranno, e questa storia si perderà. La “I”, ad esempio, è già scomparsa.


Via Don Bosco taglia il rione San Luigi, vecchie palazzine intorno a una chiesa. Se non si udisse il traffico di Corso Lodi parrebbe un villaggio lontano dalla città. Cammino e ad uno ad uno leggo i nomi degli esercizi, che sanno di borgo antico: “Panetteria”, “Drogheria”, “Tintoria”. Oltre le vetrine, gli anziani gestori eseguono con lentezza e sapienza i gesti del proprio mestiere, come da una vita. Poi d’improvviso scorgo l’anomala targa di un negozio chiuso, e l’atmosfera di quiete e tradizione goduta fin lì, scompare di fronte ai miei occhi che leggono: “Club dei giovani”. Sotto al pannello giallo, una scritta composta da un cerchio di lettere alimenta la confusione: “Pino il mio barbiere”.
Chiedo lumi a passanti, commercianti, ma con stupore constato che nessuno sa. Dopo mezz’ora di ricerche metto assieme le scarse informazioni ottenute: Pino Quagliarella, morto nel 2005, “stravagante meridionale” e amico di Claudio Cecchetto. E siccome il numero di Cecchetto non ce l’ho l’unica pista da seguire sono i bar dei paraggi, ovunque biblioteche orali sui personaggi dei quartieri.
Entro al “Re di Denari” e incontro il cameriere giusto. “Pino, il grande Pino. Diceva di avere poteri ultraterreni grazie alla sua lunga barba, che tutti gli toccavamo per attirarci la sorte. Poi faceva dei complicati riti per stimolare la ricrescita dei capelli ai clienti. Con gli occhi chiusi, una mano sui suoi baffi e l’altra sulla pelata da guarire, sussurrava: ‘Cresci, cresci, cresci…’. Mezza generazione di precoci calvi milanesi si è affidata scherzosamente alle sue magie, tutti ragazzi fra i venti e i trent’anni. Così nacque ‘Il Club dei Giovani’”.

AL BAR DEL DOPOLAVORO FERROVIARIO (CronacaQui 20/12/2011)

Le gallerie sotterranee della stazione Centrale sembrano passaggi per un mondo lugubre e misterioso. Dai tunnel stradali di Via Ferrante Aporti si vedono gli accessi sbarrati a questo enorme labirinto abbandonato.
Un tempo c’erano mercati ittici, ortofrutticoli, spaccio di vini e rivendite d’olio; le insegne sono ancora lì annerite dallo smog. Poi, come se tutti fossero scappati lungo i bui corridoi per sbucare chissà dove senza lasciare tracce, qui non è rimasto niente. L’unico esercizio superstite, tra i fantasmi di quell’epoca, è il bar del Dopolavoro ferroviario.
L’ho scovato di sera la settimana scorsa percorrendo il tunnel che collega Via Tonale a Piazza Luigi di Savoia. Da trentacinque anni è situato qui ai bordi dei sotterranei.


Fuori dall’orario di pranzo, la coppia di gestori non è più abituata ad avere clienti. Arrivo al bancone e in silenzio mi fissano stupiti, forse convinti che abbia sbagliato porta.
Intorno, fra le mensole colme di bottiglie polverose o appese alle pareti, una miriade di carabattole, souvenir e immagini consunte, sembrano raccontare la storia dell’italiano medio ai tempi in cui c’era vita qui sotto la stazione.
C’è il poster della nazionale ai campionati in Spagna del 1982, accanto a una locandina di “Delitto al ristorante cinese” con Tomas Milian e Bombolo al suo fianco. Sotto una foto della Loren da giovane, tra una collezione di liquori mignon, leggo i nomi dei panini: “Terrone”, “Siciliano”, “Calabrese” e il “Ragioniere”. Agganciata al collo di un fiasco di vino a forma di coppa del mondo FIFA, noto una vecchia racchetta Wilson in legno.
Esco con gli occhi saturi di passato e salgo in stazione a passeggiare fra i binari. In fondo al 21 scorgo la torre del faro con gli operai arrampicati da giorni contro la soppressione dei treni notturni. Pure la loro estenuante e sacrosanta battaglia in difesa del posto di lavoro, come le chincaglierie che ho visto nel bar, sa di un’Italia che non c’è più.

LE COLONNE X DI VIA LARIO (CronacaQui 6/12/2011)

C’è un mistero in pieno quartiere Isola. Due colonne, in apparenza antiche, conficcate nell’asfalto del marciapiede, proprio all’incrocio tra le vie Lario e Francesco Arese. Intorno solo traffico e palazzi, niente che possa scatenare deduzioni alla Indiana Jones. Che senso hanno allora?


Utilità nessuna, sembra. Troppo distanti per fungere da pali di una porta da calcio, troppo lisce e strette per appenderci i manifesti. Eppure si ritrovano lì e una ragione ci sarà, evocativa, monumentale, non so.
Inizio a investigare nei paraggi, desideroso di scoprirne la storia e chissà, il nome di battesimo: in fondo son gemelle pure loro. Tra le raffiche di “boh” e “abito altrove” spiccano a fine giornata le versioni di cinque “isolani da sempre”, tutte contrastanti.
Ipotesi 1, isolano documentato. “Ho letto opuscoli, ho parlato con studiosi. Sostenevano una vecchia porta di accesso a Milano, dove avvenivano controlli pre-doganali”.
Ipotesi 2, isolana forcaiola. “Un tempo ci legavano ai polsi le coppie di molesti litiganti che a suon di risse e spargimenti di veleni minavano la tranquillità della zona. I due erano costretti a stare lì e a far pace discutendo, dopo ore di insulti e sputi. Guardi che servirebbe ancora eh”.
Ipotesi 3, isolana strutturista. “Colonne antiche? Medioevo? Bufale! Le hanno costruite 30 anni fa insieme ai palazzi, per riequilibrare il terreno”.
Ipotesi 4, isolano in sella. “Hai presente il circuito a forma di ‘8’ che eseguono i motociclisti durante l’esame per la patente? Ne ho visti molti che vengono a esercitarsi qui girando intorno alle due colonne”.
Ipotesi 5, isolano apocalittico. “Macché, servono a misurare le inondazioni del Seveso, che passa qui sotto interrato. Perché ne han fatte due? Beh, metta che una crolli con la piena…”

PIAZZA FONTANA, LA CASA DELLA BISTECCA (CronacaQui 29/11/2011)

Ogni volta che arrivo nei paraggi di Piazza Fontana, mi chiedo se ritroverò quell'intruso di calcestruzzo.
Tra l’Arcivescovado e il Palazzo del Capitano di Giustizia c'è un grosso prefabbricato in rovina, coi muri di sostegno piatti, grigi e marroni, che pare tirato su per scherzo in una notte di tanti anni fa.
È disabitato e pericolante, ma nessuno osa abbatterlo per costruire moderne installazioni o un albergo per ricchi, come se ci fosse da temerlo. Resiste lì brutto e orgoglioso immerso nel lusso, e quasi si prova complicità per la sua tenacia.
L'insegna di un vecchia taverna ormai chiusa, affissa sulla facciata, stona poi col contesto più di qualunque altro aspetto: "Casa della bistecca".


A leggerla par di viaggiare indietro nel tempo: in una Milano di fine anni Sessanta, comitive di impiegati pubblici col borsello in spalla attendono che si liberi un tavolo per poter mangiare un piatto di carne come a pranzo la domenica in famiglia.
Domando ai negozianti nei dintorni se ricordano l’atmosfera di quel posto, ma tutti rispondono sbrigativi e indifferenti, quasi volessero scacciarlo dalla memoria: “Sì, era un ristorante alla buona, niente di più”; “Ha chiuso da quindici anni, perché le interessa?”
Poi su un vecchio articolo del Corriere scopro che gli ex gestori riaprirono un locale in Via Ugo Bassi all’Isola. Pedalo fin lì, ma ci trovo un altro esercizio e il nuovo padrone non ha indizi per la mia ricerca.
Torno a fotografare il prefabbricato, rassegnato a non poter riallacciare i fili di questa storia. Mi resta solo da immaginare. Milano, Piazza Fontana, fine anni Sessanta. Sono quasi le cinque del pomeriggio di una fredda giornata di dicembre, e nel “ristorante alla buona” si preparano per il turno della cena. All’improvviso si sente un boato terribile e nel palazzo di fronte muoiono diciassette persone.
Oggi a ricordo della strage è rimasta un’insegna: “Banca Nazionale dell’Agricoltura”. Di là dalla piazza ce ne è un’altra che sembra un tragicomico resconto di quei tempi bui. C’è scritto: “Casa della bistecca”.

SULLA SCIA DI UN FANTASMA DI ARGILLA (CronacaQui 22/11/2011)

A un’ora dal tramonto, uno spaventapasseri di argilla che sembra uno spettro si rivela in Via Parenzo, tra le foglie morte di un cortile e un cielo del suo stesso colore.


Appeso alla recinzione c’è un cartello blu con una freccia e una scritta che pare dargli voce, come fosse un fumetto: “Comuna Baires”. Non sarà una casa degli spiriti come al Luna Park? E siccome baratterei uno spavento per una storia mi incammino verso la direzione indicata, sulla scia del fantasma di terracotta.
Apprendo che Baires è la contrazione di Buenos Aires. In un’anonima palazzina di
mattoni rossi scopro un teatro fondato da una compagnia indipendente argentina giunta
in Italia nel 1972 . Nei locali seminterrati di un’ex fabbrica di infissi hanno ricavato la sala e un bar dalle atmosfere jazz, luce fioca sulle pareti colme di locandine, fotografie e vecchi strumenti musicali fissati ai chiodi. Il pittore Claudio Jaccarino mi descrive le attività della Comuna, dalle lezioni di scrittura e recitazione alle serate di milonga. “Il tuo spaventapasseri lo hanno messo lì le ragazze che frequentano il corso per modellare l’argilla. Abbiamo un ristorante dove la cuoca è un’attrice e le pizze sono dedicate ai divi di Hollywood. Puoi ordinare una Marlon Brando con poco salame, una Robert De Niro o una Paul Newman piccante”.
Poi mi confida sottovoce: “Anch’io giro per Milano, te lo dimostro”. E in questa
penombra, tra i poster consunti di Charlie Chaplin, Che Guevara e Giacinto Facchetti, ha il sapore di una confessione sovversiva. Apre un album coi suoi acquarelli: c’è un trasloco in Via Giambellino con una gru che si allunga fino all’ultimo piano di un palazzo, una nevicata in Piazza Vetra e un assortimento di tram. “Quanto sono belli, sai che li vendiamo usati alla città di Los Angeles?”

I MELODICI SEGRETI DI UNA TRABANT A ROGOREDO (CronacaQui 15/11/2011)

Ogni grande città contiene dei magici anfratti, luoghi appartati dove si ha l’impressione che pronunciando un’antica formula segreta, o calpestando la botola di un pozzo oscuro, si possa accedere a dimensioni sconosciute, catapultati in un fantasmagorico viaggio nel tempo. Penso ai campielli veneziani di Corto Maltese, a “Napoli sotterranea” o al “Labirinto dei perduti” di Londra.
A Milano, l’ex metropoli della siderurgia, che proprio fra le carcasse degli stabilimenti dismessi sembra nascondere i segreti del suo sviluppo, o gli echi di contorte trame economiche, provo la stessa sensazione di mistero quando passo vicino ad una delle innumerevoli officine meccaniche della periferia. Sfasciacarrozze, depositi di rottami ferrosi, gommisti: appena ne incontro uno mi chiedo se smontando un carburatore o agitando una tanica di benzina avariata non decolli verso uno stravagante mondo onirico, o un’epoca diversa dalla mia.
Così tre giorni fa in Via Toffetti, nel cuore industriale di Rogoredo, quando scorgo una mezza Trabant station wagon sul tetto di un magazzino di ricambio pezzi, all’improvviso respiro atmosfere da Guerra fredda. Metanopoli e Ponte Lambro diventano Berlino Est e i camionisti spie russe dagli occhi di ghiaccio.


Poi arriva la scoperta clamorosa: un’impiegata esce dal container degli uffici e mi svela che quella vettura è stata utilizzata dagli U2 per girare un imprecisato video-clip. La sommergo di domande, ma non sa rispondermi. Chiedo di parlare col capo, ma non c’è e pare che sia irascibile e geloso del suo reperto. Insomma, dovrò cavarmela da solo, magari sfruttando la sesta “W” del giornalismo, come diceva Marcorè imitando Gianni Riotta: Who, What, When, Where, Why e Wikipedia. Sulla nota enciclopedia leggo che una serie di Trabant fecero da scenografia tra il 1992 e il 1993 allo ZOO TV Tour della band di Bono. Infine sul sito www.macphisto.net verifico che quei modelli hanno gli stessi motivi cromatici dell’esemplare di Rogoredo, e si trovano oggi agli Hardrock Cafe di Berlino e Amsterdam. Lo scoop è fatto, ma rimane ancora un mistero: dov’è finita l’altra mezza Trabant?