giovedì 17 maggio 2012

NEL GRATTACIELO OCCUPATO (CronacaQui 15/05/2012)

Camminano in via Galvani chiacchierando sottobraccio, e dall’aspetto sembrano due signore benestanti. All’ingresso della Torre Galfa alzano gli sguardi sulla cima, li perdono affascinate dalla vivacità degli occupanti, e poi una dice all’altra col dito puntato in su: «Io vorrei prendermi il ventesimo piano, là, sai che panorama ci dev’essere, cara?». Mi sono seduto a scrivere fra i tavoli malfermi dell’ufficio stampa di Macao, il collettivo di artisti che dal 5 maggio si è insediato nel ‘catorcio’ di 109 metri da tempo inutilizzato dalla Fondiaria Sai, in un frenetico viavai di cavi elettrici e volontari che si inseguono per creare e discutere progetti. Dalla parete a vetri che dà sul cortile sento le note di un pianoforte e gli applausi della folla di ragazzi che assistono al concerto. Sul lato opposto il gruppo dei giardinieri arreda coi fiori un’aiuola, a torso nudo sotto l’afa. Mi accorgo che, al di là di ogni legittima opinione sull’evento, questa folle idea di rianimare un grattacielo vuoto da anni, sproni la curiosità di passanti, turisti che fotografano lo stabile come fosse l’attrazione del viaggio e gente del quartiere. Da giorni a Milano c’è una protesta che ricorda Berlino e New York di un’altra epoca, un’azione che non si presta a giudizi sbrigativi. Oggi sono salito fino al ventireesimo dei trentuno piani, col medesimo gusto di esplorare in bici un luogo nascosto della città . Ai vari livelli, ancora spogli e polverosi di cemento, si tengono mostre e dibattiti per far rifiatare chi si avventura nella scalata. Da questa sommità i palazzi della finanza coi lussuosi orti in terrazza paiono giocattoli, e si dà del tu all’imponenza del Pirellone. Per una volta nessuno può guardarci dall’alto in basso.

venerdì 11 maggio 2012

L’ALTRA METÀ DEL GASOMETRO (CronacaQui 9/05/2012)

Il mio amico Antonio ha perso l’ultimo passante della notte in Bovisa, e adesso sfoga tutta la sua insofferenza per Milano. I cancelli automatici della stazione gli si sono serrati davanti, come avessero obbedito a un impeto vendicativo della città, che punisce chi la detesta. Così, sotto la pioggia incessante, ci dirigiamo per via Mac Mahon ad aspettare un tram, lui a piedi e io che trascino la bicicletta mentre lo accompagno. «Non ne posso più, qui la vita se le mangiano il lavoro e i trasporti, e se avanza del tempo cosa c’è da vedere in questo grigiore?», mi chiede con l’ombrello inclinato sopra le nostre teste, e mentre ascoltandolo penso che un paracqua invisibile lo porti con sé pure nelle giornate di sole, una benda nera sugli occhi che strozza le sue curiosità. Ci avviciniamo a Villapizzone, in uno scenario di cascine in degrado e reperti industriali immersi nel silenzio. Gli confesso che a me piace e vorrei tornarci l’indomani a scovare angoli suggestivi, ma risponde che nei paraggi desolati tuttalpiù possiamo imbatterci in un malavitoso intenzionato a derubarci. Piu in là, da un parco attiguo alla ferrovia, sentiamo propagarsi le voci dei canti e dei balli di una surreale festa di famiglie cilene, allegre alla luce fioca di pochi lampioni e nel contorno squallido della periferia. Mi sembrano creature dell’oscurità che animano i margini di Milano fino all’alba e poi spariscono, e divertito lo dico ad Antonio, che invece li reputa solo stranieri privati di spazi ricreativi autentici, esiliati qui dal latente razzismo diffuso. Così fra di noi il conflitto persiste, intanto che camminiamo taciturni e nervosi. Poi una scoperta in via Lambruschini ci viene in soccorso: la metà di un gasometro è dipinta sulla facciata di un palazzo, che copre l’impianto reale eretto sullo sfondo. Alla città che ognuno immagina ce n’è sempre un’altra sovrapposta, e la verità oscilla spesso fra due ipotesi sensate.

venerdì 27 aprile 2012

LA PIETÀ DELLA COSCA (CronacaQui 24/04/2012)

In mezzo al cortile c’è una statua della Madonna col Cristo morto e sanguinante tra le braccia. Intorno i magazzini e gli alloggi usati dai Cosco per i traffici d’armi e di droga della ‘ndrangheta, muri scrostati testimoni del rapimento e dell’atroce e infame uccisione della pentita Lea Garofalo, ex compagna del boss Carlo, nel 2009 torturata qui e poi sciolta nell’acido in un terreno di San Fruttuoso, nei pressi di Monza. Viale Montello è la frontiera tra la Chinatown milanese e l’area di Porta Volta. Del fatiscente stabile al civico numero 6 si è già scritto e detto molto. Di proprietà dell’Ospedale Maggiore, che per lungo tempo l’ha abbandonato per non spendere soldi in progetti di recupero, negli anni ’90 è stato invaso da occupanti abusivi. In quest’ondata d’ingressi illegali si è infilata pure la famiglia Cosco da Crotone, che ha fatto del vecchio edificio un fortino della delinquenza, subaffittando senza titoli decine di appartamenti a extracomunitari e gestendovi affari sporchi. A marzo scorso i capi del clan (Carlo e i fratelli Vito e Giuseppe) sono finiti all’ergastolo per l’omicidio Garofalo, ma nel palazzo la situazione è ancora di totale irregolarità. Sì, si è scritto e detto molto dei fatti di Viale Montello 6, ma niente su cosa ci si vede dentro. Così ho deciso di andarci, non speranzoso di spiare chissà che, ma per annotare i dettagli, a volte tragici quanto la cronaca. Su uno sfondo di cielo azzurro intenso del dopo temporale, che Milano pare Napoli o Marsiglia, si stagliano tre piani di ballatoi pericolanti, una processione di ringhiere arrugginite che circondano il cortile. Sullo spiazzo attraversato da cinesi con i carrelli carichi di merci, è posteggiato un furgone con una faccia cattiva disegnata sul portello posteriore. Sembra guardare con disprezzo la statua della Madre piangente al suo fianco col cadavere di Gesù. Davvero non c’è posto dove la Pietà poteva stare meglio.

giovedì 19 aprile 2012

IL LADRO CHE BENEDIVA LE BICICLETTE (CronacaQui 17/4/2012)

«E buttala via sta fetentona, deciditi! È vecchia, mezza arrugginita e fa un casino quando ci pedali che pare un’impastatrice». Col suo accento pugliese da cabaret, Franco il meccanico di Porta Vittoria, dopo l’ennesima riparazione alla mia cigolante Touring azzurra, vuole convincermi a rottamarla per acquistare un modello dei suoi. «Guarda che bellezza questa, è da corsa, ‘na cosa da fenomeni. Era di un pensionato che manco può stare in piedi, come nuova. La vuoi? Trecento euro».
È un emigrante all’antica col senso degli affari. In officina vende pure bottiglie di Bonarda impolverate, dipinti di un tale artista del luogo Zecca e trapassate edizioni del Codice civile. Qualche soldo poi se lo rigioca a carte insieme a un folcloristico gruppo di amici corregionali, su un tavolo improvvisato tra gli attrezzi e i materiali di scarto.
«Ho capito che tipo sei», mi fa vedendomi indeciso, «un risparmiatore! Ora contro il mio interesse ti spiffero qualche mercatino dove con una carta da cinquanta ci prendi una fuoriserie. Qui sti traffici per carità, alla larga, se mi beccano sai che figuraccia ci faccio io? Solo uno in trent’anni m’ha fregato a me, solo uno, sto disgraziato!».
Franco ossequioso sistema i freni a bacchetta di un cliente che chiama “l’avvocato”, e subito torna a raccontare. «Una volta entra qua con una bici un giovanotto che si lagnava, tutto piagnucolante. Mi dice: ‘La prego, mi dia ciò che vuole e la tenga, era della mia povera moglie defunta, io non riesco neanche a guardarla, il dolore dei ricordi è fortissimo’. Perciò mentre gliela pago per fare un’opera buona, questo mette una mano sul manubrio e con l’altra si fa il segno della croce. Poi solenne che pareva un vescovo, si cala e bacia la sella. Oh, sembrava un funerale! M’ha fatto così impressione sta cerimonia che manco l’ho rivenduta la bici. Mica potevo guadagnarci alle spalle della morta, no? Dopo un mese però sto ragazzo torna con una mountain bike bella nuova: ‘La prego ancora, è sua a buon prezzo, l’ha lasciata la mia cara zia scomparsa’. ‘Ah sì?’, gli faccio, ‘e quanti parenti ti schiattano a te, brutto fetentone disgraziato! Sei un ladro zozzone, vattene via che ti prendo a mazzate!’».
Se il mistico ladro che benedice le biciclette dovesse trafugare pure la vostra, sappiate quindi che non la recupererete più da Franco. In compenso sul sito www.rubbici.it c’è un archivio dei cicli rubati a Milano. In caso di furto segnalatelo inserendo una foto del mezzo. Io previdente sfrutto pure questo spazio su CronacaQui a vantaggio della mia Touring cigolante.

venerdì 13 aprile 2012

VENERDÌ ORE 18: FUGA DA MILANO (CronacaQui 10/4/2012)

Questa volta c’è pure la Pasqua nel mezzo e l’effetto si moltiplica. I pendolari del fine settimana abbandonano la città come se fosse una nave in affondamento, e si precipitano alle stazioni trascinando i trolley, riempiti la mattina a casa e portati in ufficio.
Quando si aprono in Centrale le carrozze della metropolitana, a botto ne esce l’ardita valanga di viaggiatori. Non si voltano e concentrati sondano lo spazio davanti per scansare ostacoli e immaginare lo slalom che li condurrà al binario.
In bicicletta, pedalando altrove, tutto ciò non si vede, ma ne arriva l’eco. Se l’abitudine è serpeggiare fra le strettoie del traffico intuendo le mosse di automobilisti e pedoni, in costante allerta di uno sportello che ci si para di fronte, quel metro di strada in più al semaforo, l’aria di un grammo meno pesante, si notano e rimandano a un fatto: è venerdì, l’esercito di lavoratori rubati da Milano alle provincie del Nord, si fa da parte per due giorni.
C’è chi ritorna in famiglia, il fidanzato che si ricongiunge alla sua metà o il giovane professionista senza amici per mancanza di tempo che scappa pure dalla solitudine.
Se da un lato svuotano un po’ la città lasciandola più vivibile a chi rimane, dall’altro ribadiscono l’indifferenza che nutre per Milano chi la frequenta perché qui ha un’occupazione e basta.
Vivono con il luogo un rapporto di convenienza economica privo di passioni e curiosità: il loro impegno in cambio dei soldi, non cercano esperienze diverse né sono disposti a dare qualcosa di sé lontani dalle scrivanie.
Eppure, ad ogni ritorno a casa, ci sarà una suggestione, un’immagine legata a questa metropoli che porteranno via insieme allo stipendio. Mi chiedo se sia la fermata dove aspettano il tram la mattina, la faccia del ragazzo che consegna le pizze a cena, la cassa del supermercato o qualcos’altro.

venerdì 30 marzo 2012

I BUCHI NERI DEVASTANO MILANO (CronacaQui 27/3/2012)

Ho visto un buco nero ad occhio nudo nel centro di Milano. Dicono che si creino soltanto in galassie distanti anni luce da noi, ovunque muoia una stella, e che servano radiotelescopi e antenne da milioni di euro per captarne l’esistenza. Io però lo giuro, ne ho trovato uno in fondo al tronco dei binari morti della stazione ferroviaria di Porta Genova, e l’ho persino fotografato con una macchina da quattro soldi, altro che costosi aggeggi astronomici.
Non ci credete, mi spiego meglio. Il buco nero è un tunnel che inghiotte un’epoca, accelera il tempo e catapulta gli avvenimenti nel futuro, distorcendo spazi e relazioni, giusto?
Se salite sul ponte pedonale verde che porta in via Tortona, guardando giù noterete che il settore destro dei binari della stazione è una coda di vecchie linee interrotte ai piedi di un muro di mattoni rossi. Oltre, subito a ridosso, si addensano dei giganteschi condomini di via Savona.


Un capotreno in pensione racconta che fino agli anni cinquanta da lì i convogli andavano in Centrale passando da Cadorna, ma poi il tratto fu dismesso per consentire la cementificazione della zona. Lui ricorda così, io però non ci credo.
Insiste e aggiunge che da quel lato, fra i nuovi appartamenti, è rimasto un piccolo casello giallo del collegamento scomparso, adesso abitato da un suo ex collega. È vero, l’ho scoperto, ma la famigerata antica linea per me non c’è mai stata. Quale insulso urbanista può averla chiusa lasciando in abbandono un’ala intera della stazione, qui nel cuore della città, per far tirare su tutt’intorno degli scatoloni di calcestruzzo a duecento metri dalla darsena?
Un simile scempio non è opera dell’uomo: lì, appena dopo l’antico casello e i binari morti, dove immagineremmo fischiare un treno a vapore per Vigevano e invece troviamo i palazzi del boom edilizio, c’è un maledetto buco nero. Ha capovolto il tempo e deformato lo scenario.
Così, quando scoviamo certi obbrobri in giro per Milano, non accusiamo d’impulso costruttori senza scrupoli o politici che intascano mazzette. È colpa dei buchi neri: ci sono ad Andromeda e pure in Porta Genova.

venerdì 23 marzo 2012

L’INQUIETANTE EX DAZIO DEL NAVIGLIO (CronacaQui 20/3/2012)

Ne osservo il retro dai giardini di via Barsanti e mi tornano alla mente i due giovani antagonisti che nell’autunno 2009, precipitandosi giù dai ballatoi, mi inseguirono minacciosi fino alla piscina Argelati per obbligarmi a cancellare le fotografie del palazzo: «Siamo occupanti, mica poi te ne vai dai poliziotti a farci identificare?».
Non è pero per questo ricordo che l’antico dazio di Ripa di Porta Ticinese 83, sulla riva sinistra del Naviglio Grande, mi ha sempre suscitato timore: c’è una ragione più oscura che non afferro.
È un edificio a sé stante di proprietà del Demanio, isolato dalla schiera di case di ringhiera lungo l’alzaia. Ha un alto settore centrale con due ali dal tetto spiovente che sembrano le torri di un castello transilvanico, e i vecchi magazzini ai lati che abbracciano il cortile, nascosto da un muretto. Da anni, dopo la dichiarazione di inagibilità del Comune, è oggetto di una sequenza d’occupazioni di gruppi politici militanti e successivi sgomberi, un’altalena che non accenna a fermarsi per mancanza di idee sul recupero dello stabile. Adesso, dopo alcuni arresti, c’è soltanto qualche rom e una piccola comunità di punk. Si vedono camminare fra i balconi esterni dei quattro piani come fossero sentinelle. Se ti fermi a guardarli da lontano ti notano, sospettosi come i loro predecessori. Ognuno è impegnato a far qualcosa, ma tutte le azioni sembrano coordinate, obbedienti a un misterioso disegno generale.
Così arroccato e inavvicinabile, il palazzo pare un lontano pianeta dentro Milano, un microcosmo dove accadono fatti ignoti su cui è meglio non indagare.
In fondo certi ruderi abbondanati nelle città sono come i ricordi passati che vorremmo rimuovere dalla memoria: tornarci col pensiero fa star male. Ecco perché quando guardo l’ex dazio e cerco di capirci di più, sento un senso di paura che mi arresta.

LA FONTANA "STRANIERA" DI VIA PADOVA (CronacaQui 13/3/2012)

A volte Milano stecca come un tenore. La musica fra strade e isolati è sempre la stessa: sirene lampeggianti coi motori d’auto in sottofondo, e un coro di palazzi che sembrano prigioni, e di visi stanchi sui marciapiedi.
Poi però d’improvviso, nel frastuono di questa cantilena, si imbocca un itineario sconosciuto, o curiosi apriamo gli occhi in attesa del tram, o in coda al semaforo per recarci in ufficio, e ci appare un insolito angolo che stona, che rompe lo schema razionale della metropoli.
Infatti non serve visitare musei e chiese antiche per scoprire l’altra voce di Milano. Le sue affascinanti stranezze sono annerite dallo smog e son fatte di cemento e d’acciao come la città brutta.
All’incrocio fra le vie Padova e Angelo Mosso, c’è una piazzetta munita di panchine e giochi per bambini, progettata senza pretese, ma solo per la necessità sociale di creare uno spazio di svago nel quartiere che cresceva. In mezzo si trova una fontana senza senso: un muretto di ordinari mattoni rossi da dove pendono diciassette rubinetti spenti, identici fra loro e simili a quelli che tutti abbiamo in casa. A vederla così verrebbe da pensare che un tempo quando gettava acqua poteva servire a dissetare i passanti, o a lavare i panni. Invece davanti c’è una vasca rettangolare che impedisce di raggiungerla, e sembra persino dotarla di un qualche attributo estetico. Però lo sfacciato pragmatismo di quella serie di diciassette rubinetti uguali neutralizza pure l’ipotesi decorativa. A che serve quindi? Per cosa è stata costruita?
In via Padova, la strada degli emigranti, anche questa fontana è straniera: è lì, vorrebbe dirci qualcosa, ma il suo linguaggio ci confonde. Ogni tanto, qualcuno spazientito di non capire, quasi per costringerla a riprendersi un comune senso di sorgente, le gira intorno e la usa come pisciatoio.

venerdì 9 marzo 2012

LAMBRATE: LA BICI CHE SCHIACCIA LE AUTO (CronacaQui 6/3/2012)

In certi giorni e senza un perché, si crea un’alchimia speciale fra i copertoni e l’asfalto, l’aria che punge, i muscoli e i pensieri del ciclista, che la bici va da sé e non vien mai voglia di fermarla. Scendere per un caffè o una passeggiata esplorativa in un posto sconosciuto, è come tapparsi le orecchie nel mezzo di un bel racconto al bar.
Quando prende quest’armonia, Milano è una galleria di immagini e piccole storie che scorrono a quindici all’ora, nel tempo di uno scatto e una frenata.
Così da Via Melchiorre Gioia svolto per Piazza della Repubblica, e ad un incrocio, fra due colonne d’auto, c’è un uomo che gioca a tennis contro il muro di un palazzo, dove campeggia enorme un cartellone pubblicitario di biancheria intima femminile. Il botto delle pallettate si mischia ai clacson, e lui è vestito da torneo, estraneo al contesto di semafori e smog che lo assedia: fascia elastica per i capelli, calzettoni e impeccabile completo bianco.
Proseguo oltre Porta Venezia e in Via Maiocchi sento una musica da banda paesana. Mi figuro una festa di quartiere, ma poi su un marciapiede trovo una coppia di nomadi con la fisarmonica e la tromba, che strimpellando “Fischia il vento” ricevono offerte dalla gente affacciata sui balconi. Ogni tanto compare una ragazza e il duo improvvisa una serenata.
L’itinerario continua e le ruote mi sbalzano da un luogo a un altro, in un’altalena di flash e suggestioni che sembrano scollegate. Eppure esiste in città una sola immagine che raccoglie tutti gli scenari avvistati sui pedali durante un giro, ed esprime quel senso di libertà che si prova scavalcando il traffico. È un murale dell’artista Blu dipinto in Via Predil, sulla massicciata della Stazione di Lambrate. Una bicicletta gigante schiaccia le macchine come fossero scatole di tonno e si apre la strada che vuole.

venerdì 2 marzo 2012

MILANO COPIA MILANO (CronacaQui 28/2/2012)

Le città quando nascono sono come le persone: ciascuna è diversa dalle altre. Cambia il riflesso del cielo sui palazzi, la forma dei viali e il carattere degli abitanti. Poi, come se quell’inventiva primordiale rimanesse strozzata dalla stessa routine di filobus e pause pranzo che aliena gli individui, la fantasia dei progettisti si esaurisce e le idee degli artigiani, dei designer e dei giardinieri, perdono freschezza insieme all’aria che diventa irrespirabile. Così, in assenza di spinte originali, per espandersi i nuclei urbani si copiano fra di loro. Amsterdam ha rubato i canali d’acqua a Venezia, e Torino i portici a Bologna. Esistono rifacimenti della Torre Eiffel a Tokyo, Londra, Praga, Las Vegas e persino in Guatemala. Pigra e a corto di creatività, nel dopoguerra Nizza acquistò per la via litoranea gli splendidi lampioni in stile liberty del lungomare di Reggio Calabria.
Eppure c’è una città che non ne ricorda altre e ha fatto tutto da sé: Milano. Non capita di star qui e sentirsi in un posto diverso. Pure quando ci si prova con una gita al parco o all’idroscalo, il rimbombo improvviso di un motore o la frenesia di un passante spezzano le illusioni. Anzi, Milano è talmente esclusiva che copia se stessa. Le strade, ad esempio, sono così indistinte che per non perdermi in bicicletta uso i punti cardinali, come fossi nell’oceano privo di riferimenti all’orizzonte.
Chissà perché ad ogni angolo Milano replica Milano. Forse teme di essere dimenticata un giorno da pendolari ed emigranti che vengono qui per soldi senza amarla, e ha bisogno di evocarsi continuamente. Come in via Palazzo Reale, dove le finestre di una casa riappaiono dipinte sulla medesima facciata.

martedì 28 febbraio 2012

LA CHIESETTA SULLO SPARTITRAFFICO (CronacaQui 21/2/2012)

Quando si mostra Milano a un amico, inevitabile come il tramonto capita l’istante in cui domanderà: «Perché è così moderna?». Lo avete condotto al Duomo mitragliando aneddoti e nozioni su ciascun palazzo medioevale trovato nel percorso. Vi siete spinti sino all’antico quartiere romano a scovare raffinate incisioni in latino sulle pietre. Eppure a un tratto lui vi guarderà come se steste barando, come se questa città di vestigie e monumenti fosse un papocchio di cartapesta messo su il giorno prima per non deluderlo, e comunque chiederà: «Sì, ma perché è così moderna?». Gli parlerete a ragion veduta di bombe, di ricostruzione post-bellica, ma rimarrà in entrambi un fastidioso sapore di mezza verità.
In effetti a Milano sembra esserci un astratto impulso di rinnovamento interiore, qualcosa di inspiegabile che sta al di fuori delle cronologie e dei manuali di storia e la rende tale. Un poderoso spirito d’avanzata che ingloba inesorabile i resti del passato o li svuota di autorità, elevando a unica città credibile quella del progresso, nel bene e nel male.
Soltanto un’opera in città gode del rispetto quasi ossequioso di quest’innato moto di cemento e avanguardie, ed è una chiesetta incastrata nello spartitraffico di via Lorenteggio. Si chiama Oratorio di San Protaso.


Avvistandone l’abside in bicicletta mi era parso un deposito ANAS da vecchia strada statale. Fu edificato nel secolo XII quando intorno c’era la campagna, poi l’espansione di Milano arrivò a stritolarlo tra le due inquinatissime corsie.
Adesso penserete come si fa a sostenere che proprio questo antico mausoleo confinato in un marciapiede sia stato risparmiato dalla valanga urbana. Vi domanderete dove sta l’armonia tra la religiosità di San Protaso e l’asfalto che lo circonda. La spiegazione è semplice: a Milano c’è il culto dello spartitraffico.

ITINERARI NELLA CITTÀ INVISIBILE (CronacaQui 14/2/2012)

Ci sono percorsi sconosciuti alle mappe, che non collegano quartieri o circonvallazioni, ma l’altalena degli stati d’animo di un abitante. Non sono fatti di marciapiedi e linee del tram, bensì di ricordi, pentimenti e desideri futuri. Così, a Milano, si sovrappongono tre milioni di invisibili itinerari sentimentali. In segreto, la notte tornando a casa, il giovane innamorato sosta alla base dell’antenna RAI di Corso Sempione a giurarle che avrà cura della sua ragazza, perché è convinto che il grosso traliccio tutto sorvegli da lassù e punisca i traditori via radio ovunque si infrattino. L’immigrato nostalgico contempla i binari dal ponte della Stazione Garibaldi, pensando che quei ferri uniscono il mondo e arrivano pure fino a casa sua. Per ciascuno di noi ogni emozione è un punto nella città reale, come le fermate del metrò.
Chiunque sulle strade di Milano avrà notato passeggiare una categoria di anziani solitari, senza meta apparente. Si crede che ammazzino il tempo fino all’ora di cena. Forse invece è il loro quotidiano viaggio nell’impalbabile metropoli delle passioni. Quando spiano le opere di un cantiere dal buco di una lamiera, è come se sospettosi origliassero di nascosto un dialogo fra la moglie e un’amica, in attesa di carpire la confidenza che gli faccia bene o male al cuore. Un nuovo centro commerciale oltre le ruspe, potrebbe infatti ferire la sensazione ispirata da quel posto: la felicità per la nascita di un nipote, le memorie d’infanzia.
Una volta un vecchio l’ho visto seduto ai tavoli esterni di un’osteria chiusa da anni, vicino al Lorenteggio. Guardava i giganteschi edifici sullo sfondo. Nell’ex locanda si immaginava bambino, era il principio della sua esistenza, ma nei moderni fabbricati oltre il piazzale, così fuori dalla sua epoca, sentiva la fine. Lo scenario fra i due luoghi lo associava quindi al tempo trascorso in questa terra: c’erano asfalto, arbusti secchi e pozzanghere. Eppure credeva di aver passato una vita migliore.

QUELL’ENORME PASSIONE D’ASFALTO (CronacaQui 7/2/2012)

Appena svolto in Via D’Adda dal Naviglio Grande mi appare un’amorfa chiazza tricolore dipinta sulla strada, che spezza la monotonia del manto bianco che ha coperto la città in questi giorni. Poi avanzo e scopro uno scudetto gigantesco davanti alla carrozzeria “Inter”, indicata da un’insegna nerazzurra fregiata di trofei luminosi. Ficcata dentro a un cumulo di neve c’è persino una bandiera della Beneamata, che pare un vessillo alpino. Manco da Appiano Gentile fossero partiti alla conquista dell’Everest.


Entro in officina e chiedo al titolare quanti soldi d’imposta comunale paghi per quest’opera stradale grande come dieci posti auto. «Zero assoluto» – risponde il signor Fiamberti – «È un omaggio di anonimi tifosi alla nostra storica fede interista, realizzato di notte al termine del glorioso campionato 2008/2009. Dai tempi di mio padre giocatori e dirigenti si confessano qui, al suono di lamiere martellate. Persino Massimo Moratti viene a trovarci per chiacchierare di pallone, per confrontare le sue idee. I segreti societari nascono in carrozzeria e finiscono in consiglio d’amministrazione. Adesso i Vigili urbani vogliono cancellare il megascudetto per abusivismo, ma io spero in un condono, questa è arte spontanea». Poi Fiamberti innalza il tono della conversazione e mi parla di un imprecisato “spirito Inter”, che anima il vero tifoso e lo rende migliore nella vita: come professionista, amico e amante. «È un flusso etereo che dona stile e gentilezza in ogni situazione, anche quando fai la spesa». Al termine dell’intervista misuro coi passi le dimensioni del tricolore d’asfalto: 11 metri per 7. Immaginatelo cucito in proporzione su casacche grandi come Piazza Duomo. Avremmo lo stadio di San Siro confinante con Novara, l’erba del prato alta sei metri e Gulliver Campione d’Italia.

ASSALTO ALLA TORRE…VELASCA (CronacaQui 24/1/2012)

Ci sono luoghi che fanno l’immaginario di una metropoli, eppure sembrano invalicabili ai più. Per chi identifica il suo carattere e la forma dei propri desideri con le geometrie e gli odori della città, trovare un divieto d’accesso a un vicolo privato o a un pittoresco cortile interno, è come dover rinunciare a un lato di sé stessi, o a una bella amicizia.
Voi, ad esempio, siete mai saliti sulla Torre Velasca?
A forza di vederla svettare sulla coltre nebbiosa e nelle scene di memorabili film come “Milano calibro 9”, mi è sorta la curiosità di esplorarla dentro e capire cosa si contempli da lassù.
Purtroppo, tra i 106 metri dell’edificio, si trovano soltanto abitazioni e studi professionali, niente che si possa raggiungere senza appuntamento inventando una banale scusa per eludere i sorveglianti in portineria.
Se però ci si finge viaggiatori in partenza verso isole remote, per noi l’ingresso al quindicesimo piano è spalancato: lì infatti c’è il Consolato delle Mauritius.
Io ho fatto così, chiedendo anche di passare dalle scale per avventurarmi nella pancia del gigante. Sono strette e spoglie, neanche pare di arrampicarsi in un famoso grattacielo. L’immenso vuoto tra le rampe è invisibile, coperto da pannelli anti-caduta, e ad ogni pianerottolo una telecamera a circuito chiuso mi scoraggia a fotografare. Comincio a sentirmi inghiottito da qualcosa.
Poi entro nel Consolato, e l’accogliente spirito del piccolo appartamento, il giallo e il verde della bandiera mauriziana e il bel sorriso di una volontaria della Croce Rossa in attesa, rimuovono la claustrofobia provata sulle scale.
Gli uffici sono vuoti, sento solo un’impiegata parlare di visti e permessi di soggiorno saltando tra l’inglese e il francesce. Ne approfitto e mi infilo in una stanza per guardare Milano da queste finestre: è bella. Scendo con l’ascensore e penso a uno scatto originale da portarmi via dalla Torre. Facile, la pulsantiera: è alta quanto me.

IL MUSEO DELLA MACCHINA DA SCRIVERE (CronacaQui 17/1/2012)

Non mi ero mai accorto delle analogie tra la bicicletta e la macchina da scrivere. Entrambe necessitano di un’interazione fra l’uomo e gli ingranaggi. Entrambe, al cospetto delle rapide tecnologie moderne, portano con sé un implicito elogio della lentezza.
Ci ho pensato la settimana scorsa in Via Menabrea scoprendo per caso il “Museo della macchina da scrivere”, al numero 10.
Il fondatore Umberto Di Donato, proprietario di una collezione con più di mille apparecchi, mi accompagna tra gli scaffali, dove le rare Remington, Triumph e Olivetti, esposte insieme ad antiche locandine pubblicitarie, fanno di questo spazio un qualcosa di bello per gli occhi.


«Nel 1959, appena arrivato a Milano da Caserta per lavorare alla Comit, acquistai una Lettera 22, la stessa che usava Indro Montanelli. La scelsi perché il mio compagno di stanza era un agente della Olivetti e me la procurò a prezzo agevolato. Così ricevetti anche uno dei pochi esemplari del 33 giri “Musica per parole”, dove il grande Mario Soldati spiegava come battere con tutte e dieci le dita. Ai tempi chi sapeva scrivere a macchina aveva un impiego e la libertà».
Mentre Di Donato mi mostra i suoi modelli più cari, rimarcando che ognuno «evoca l’anima di chi l’ha posseduto», il suo tono si fa aulico e preciso. Le parole sembrano uscire dal rullo di una Lexikon 80 di un vecchio professore di lettere, senza una sbavatura sulla carta. Capisco che quella Lettera 22 è stata un’amica che lo ha aiutato ad affermarsi nel lavoro e a vivere a Milano con orgoglio provenendo dal Sud.
«L’anima di questa macchina deve essere finita all’inferno», dice indicando la Clear Tech usata in un carcere texano dal condannato a morte Greg Summers, donata al museo da Amnesty International.
Poi ce n’è pure una cinese, con una testina mobile che seleziona l’ideogramma in una matrice di quattromila minuscoli e indistinguibili elementi. «Sa che in Cina per istruire un dattilografo ci vogliono due anni? L’ho persino portata in Paolo Sarpi per chiedere a qualcuno come funziona, ma nessuno ha potuto aiutarmi».

L’EX FABBRICA DELLA LAMBRETTA (CronacaQui 10/1/2012)

Dall’esterno dei tre giganteschi capannoni a volta, nessun indizio segnala che si sta entrando in uno dei vecchi templi dell’industria italiana. Via Raffaele Rubattino 75, oltre la Tangenziale Est: qui fino al 1971 si produceva la Lambretta.
Scavalco il recinto e mi incammino, fra siringhe, ciottoli e cartocci di botti di capodanno, alla ricerca di tracce di quell’epopea.
Una ragnatela di crepe spacca l’asfalto del piazzale. Tra la breccia e i mattoni crollati dalle facciate dei depositi si contorcono i cavi arrugginiti dei pilastri atterrati dalle ruspe.


Macerie sulle macerie: il cemento frantumato affossa i lastroni d’alluminio incastrati alle travi di legno spezzate dalle frane. Distante, oltre una spianata coperta di polvere e di arbusti, un’orchidea pende dalle maglie di una grata.
Scalciando fra pezzi di cartone umido marchiati “Innocenti” raggiungo una parete grigia nello spogliatoio degli operai. Striscio il pollice su quattro motociclette schizzate col gesso, e l’intonaco scrostato si ammucchia sulla punta e sui lacci di vecchi scarponi da lavoro col cuoio scucito e il tacco rialzato.
Lungo un corridoio freddo al piano terra della palazzina degli uffici calpesto timbri, documenti contabili e cartoline in bianco e nero sparse sul pavimento ruvido e traballante. Salgo le scale coi parapetti che penzolano sulla tromba e ad ogni passo il vetro delle finestre rotte si sminuzza sotto le mie scarpe.
Esco in cortile e mi perdo tra cumuli di detriti nascosti da cespugli. All’improvviso, poco davanti a me, un grosso fagiano scatta in aria come un petardo e vola via strepitando. Spaventato capisco che la natura ha iniziato a riprendersi ciò di cui l’uomo non si è curato, e non ammette nuove intrusioni. Così mi sento di troppo: riprendo la bici e torno in città.

DUE POPOLI, DUE ARCHI, UN CIRCOLO (CronacaQui 3/1/2012

Non servono i trattati di antropologia per stabilire le affinità tra due popoli, basta un arco. Lo dimostra il cartello che ho trovato affisso alla porta di ingresso del circolo ‘Canusium’, nel cuore della Barona, tra le vie Biella e Bonaventura Zumbini.


I milanesi hanno l’Arco della Pace del 1838, i canosini quello di Traiano del II secolo d.C., e nonostante l’abisso cronologico fra i due monumenti il gemellaggio è fatto: circolo ricreativo et sportivo sia. “Quest’organizzazione è composta da lombardi e pugliesi in parti uguali, cinquanta e cinquanta. È un esempio di armonia e contaminazione tra Nord e Sud”, mi spiegano impegnati in un giro di briscola dei soci all’interno. Beh, all’armonia voglio crederci, ma al fifty-fifty no; immaginate un circolo ‘Mediolanum’ a Canosa di Puglia: ad eccezione di pochi e accesi tifosi
rossoneri, con difficoltà raccoglierebbe le adesioni dei locali.
Poi faccio un giro della zona in cerca di informazioni sulla comunità canosina della Barona, e incontro il parroco Don Roberto Rondanini sul sagrato della chiesa. “La massima concentrazione c’è stata negli anni ’60, quando ancora le officine del Naviglio Grande erano attive, grosse realtà come la Richard Ginori e le Cartiere Burgo, dove si producevano le bobine per la stampa del Corriere della Sera. Tuttavia l’identità dei canosini a Milano è rimasta forte. In parrocchia l’estate scorsa è giunto dalla Puglia il simulacro di San Sabino, il loro Patrono, che accompagnato dal sindaco, da tutto il consiglio comunale e da 3.000 compaesani residenti nel nord Italia, ha sfilato per due giorni tra le strade del quartiere portato in spalla dai fedeli. Si tratta di un raro fenomeno di pellegrinaggio all’incontrario, dove è il santo a raggiungere i propri devoti lontani”.

PINO QUAGLIARELLA, LA LEGGENDA DEI PELATI (CronacaQui 27/12/2011)

Un giorno smonteranno l’insegna, o i colori sbiadiranno, e questa storia si perderà. La “I”, ad esempio, è già scomparsa.


Via Don Bosco taglia il rione San Luigi, vecchie palazzine intorno a una chiesa. Se non si udisse il traffico di Corso Lodi parrebbe un villaggio lontano dalla città. Cammino e ad uno ad uno leggo i nomi degli esercizi, che sanno di borgo antico: “Panetteria”, “Drogheria”, “Tintoria”. Oltre le vetrine, gli anziani gestori eseguono con lentezza e sapienza i gesti del proprio mestiere, come da una vita. Poi d’improvviso scorgo l’anomala targa di un negozio chiuso, e l’atmosfera di quiete e tradizione goduta fin lì, scompare di fronte ai miei occhi che leggono: “Club dei giovani”. Sotto al pannello giallo, una scritta composta da un cerchio di lettere alimenta la confusione: “Pino il mio barbiere”.
Chiedo lumi a passanti, commercianti, ma con stupore constato che nessuno sa. Dopo mezz’ora di ricerche metto assieme le scarse informazioni ottenute: Pino Quagliarella, morto nel 2005, “stravagante meridionale” e amico di Claudio Cecchetto. E siccome il numero di Cecchetto non ce l’ho l’unica pista da seguire sono i bar dei paraggi, ovunque biblioteche orali sui personaggi dei quartieri.
Entro al “Re di Denari” e incontro il cameriere giusto. “Pino, il grande Pino. Diceva di avere poteri ultraterreni grazie alla sua lunga barba, che tutti gli toccavamo per attirarci la sorte. Poi faceva dei complicati riti per stimolare la ricrescita dei capelli ai clienti. Con gli occhi chiusi, una mano sui suoi baffi e l’altra sulla pelata da guarire, sussurrava: ‘Cresci, cresci, cresci…’. Mezza generazione di precoci calvi milanesi si è affidata scherzosamente alle sue magie, tutti ragazzi fra i venti e i trent’anni. Così nacque ‘Il Club dei Giovani’”.

AL BAR DEL DOPOLAVORO FERROVIARIO (CronacaQui 20/12/2011)

Le gallerie sotterranee della stazione Centrale sembrano passaggi per un mondo lugubre e misterioso. Dai tunnel stradali di Via Ferrante Aporti si vedono gli accessi sbarrati a questo enorme labirinto abbandonato.
Un tempo c’erano mercati ittici, ortofrutticoli, spaccio di vini e rivendite d’olio; le insegne sono ancora lì annerite dallo smog. Poi, come se tutti fossero scappati lungo i bui corridoi per sbucare chissà dove senza lasciare tracce, qui non è rimasto niente. L’unico esercizio superstite, tra i fantasmi di quell’epoca, è il bar del Dopolavoro ferroviario.
L’ho scovato di sera la settimana scorsa percorrendo il tunnel che collega Via Tonale a Piazza Luigi di Savoia. Da trentacinque anni è situato qui ai bordi dei sotterranei.


Fuori dall’orario di pranzo, la coppia di gestori non è più abituata ad avere clienti. Arrivo al bancone e in silenzio mi fissano stupiti, forse convinti che abbia sbagliato porta.
Intorno, fra le mensole colme di bottiglie polverose o appese alle pareti, una miriade di carabattole, souvenir e immagini consunte, sembrano raccontare la storia dell’italiano medio ai tempi in cui c’era vita qui sotto la stazione.
C’è il poster della nazionale ai campionati in Spagna del 1982, accanto a una locandina di “Delitto al ristorante cinese” con Tomas Milian e Bombolo al suo fianco. Sotto una foto della Loren da giovane, tra una collezione di liquori mignon, leggo i nomi dei panini: “Terrone”, “Siciliano”, “Calabrese” e il “Ragioniere”. Agganciata al collo di un fiasco di vino a forma di coppa del mondo FIFA, noto una vecchia racchetta Wilson in legno.
Esco con gli occhi saturi di passato e salgo in stazione a passeggiare fra i binari. In fondo al 21 scorgo la torre del faro con gli operai arrampicati da giorni contro la soppressione dei treni notturni. Pure la loro estenuante e sacrosanta battaglia in difesa del posto di lavoro, come le chincaglierie che ho visto nel bar, sa di un’Italia che non c’è più.

LE COLONNE X DI VIA LARIO (CronacaQui 6/12/2011)

C’è un mistero in pieno quartiere Isola. Due colonne, in apparenza antiche, conficcate nell’asfalto del marciapiede, proprio all’incrocio tra le vie Lario e Francesco Arese. Intorno solo traffico e palazzi, niente che possa scatenare deduzioni alla Indiana Jones. Che senso hanno allora?


Utilità nessuna, sembra. Troppo distanti per fungere da pali di una porta da calcio, troppo lisce e strette per appenderci i manifesti. Eppure si ritrovano lì e una ragione ci sarà, evocativa, monumentale, non so.
Inizio a investigare nei paraggi, desideroso di scoprirne la storia e chissà, il nome di battesimo: in fondo son gemelle pure loro. Tra le raffiche di “boh” e “abito altrove” spiccano a fine giornata le versioni di cinque “isolani da sempre”, tutte contrastanti.
Ipotesi 1, isolano documentato. “Ho letto opuscoli, ho parlato con studiosi. Sostenevano una vecchia porta di accesso a Milano, dove avvenivano controlli pre-doganali”.
Ipotesi 2, isolana forcaiola. “Un tempo ci legavano ai polsi le coppie di molesti litiganti che a suon di risse e spargimenti di veleni minavano la tranquillità della zona. I due erano costretti a stare lì e a far pace discutendo, dopo ore di insulti e sputi. Guardi che servirebbe ancora eh”.
Ipotesi 3, isolana strutturista. “Colonne antiche? Medioevo? Bufale! Le hanno costruite 30 anni fa insieme ai palazzi, per riequilibrare il terreno”.
Ipotesi 4, isolano in sella. “Hai presente il circuito a forma di ‘8’ che eseguono i motociclisti durante l’esame per la patente? Ne ho visti molti che vengono a esercitarsi qui girando intorno alle due colonne”.
Ipotesi 5, isolano apocalittico. “Macché, servono a misurare le inondazioni del Seveso, che passa qui sotto interrato. Perché ne han fatte due? Beh, metta che una crolli con la piena…”

PIAZZA FONTANA, LA CASA DELLA BISTECCA (CronacaQui 29/11/2011)

Ogni volta che arrivo nei paraggi di Piazza Fontana, mi chiedo se ritroverò quell'intruso di calcestruzzo.
Tra l’Arcivescovado e il Palazzo del Capitano di Giustizia c'è un grosso prefabbricato in rovina, coi muri di sostegno piatti, grigi e marroni, che pare tirato su per scherzo in una notte di tanti anni fa.
È disabitato e pericolante, ma nessuno osa abbatterlo per costruire moderne installazioni o un albergo per ricchi, come se ci fosse da temerlo. Resiste lì brutto e orgoglioso immerso nel lusso, e quasi si prova complicità per la sua tenacia.
L'insegna di un vecchia taverna ormai chiusa, affissa sulla facciata, stona poi col contesto più di qualunque altro aspetto: "Casa della bistecca".


A leggerla par di viaggiare indietro nel tempo: in una Milano di fine anni Sessanta, comitive di impiegati pubblici col borsello in spalla attendono che si liberi un tavolo per poter mangiare un piatto di carne come a pranzo la domenica in famiglia.
Domando ai negozianti nei dintorni se ricordano l’atmosfera di quel posto, ma tutti rispondono sbrigativi e indifferenti, quasi volessero scacciarlo dalla memoria: “Sì, era un ristorante alla buona, niente di più”; “Ha chiuso da quindici anni, perché le interessa?”
Poi su un vecchio articolo del Corriere scopro che gli ex gestori riaprirono un locale in Via Ugo Bassi all’Isola. Pedalo fin lì, ma ci trovo un altro esercizio e il nuovo padrone non ha indizi per la mia ricerca.
Torno a fotografare il prefabbricato, rassegnato a non poter riallacciare i fili di questa storia. Mi resta solo da immaginare. Milano, Piazza Fontana, fine anni Sessanta. Sono quasi le cinque del pomeriggio di una fredda giornata di dicembre, e nel “ristorante alla buona” si preparano per il turno della cena. All’improvviso si sente un boato terribile e nel palazzo di fronte muoiono diciassette persone.
Oggi a ricordo della strage è rimasta un’insegna: “Banca Nazionale dell’Agricoltura”. Di là dalla piazza ce ne è un’altra che sembra un tragicomico resconto di quei tempi bui. C’è scritto: “Casa della bistecca”.

SULLA SCIA DI UN FANTASMA DI ARGILLA (CronacaQui 22/11/2011)

A un’ora dal tramonto, uno spaventapasseri di argilla che sembra uno spettro si rivela in Via Parenzo, tra le foglie morte di un cortile e un cielo del suo stesso colore.


Appeso alla recinzione c’è un cartello blu con una freccia e una scritta che pare dargli voce, come fosse un fumetto: “Comuna Baires”. Non sarà una casa degli spiriti come al Luna Park? E siccome baratterei uno spavento per una storia mi incammino verso la direzione indicata, sulla scia del fantasma di terracotta.
Apprendo che Baires è la contrazione di Buenos Aires. In un’anonima palazzina di
mattoni rossi scopro un teatro fondato da una compagnia indipendente argentina giunta
in Italia nel 1972 . Nei locali seminterrati di un’ex fabbrica di infissi hanno ricavato la sala e un bar dalle atmosfere jazz, luce fioca sulle pareti colme di locandine, fotografie e vecchi strumenti musicali fissati ai chiodi. Il pittore Claudio Jaccarino mi descrive le attività della Comuna, dalle lezioni di scrittura e recitazione alle serate di milonga. “Il tuo spaventapasseri lo hanno messo lì le ragazze che frequentano il corso per modellare l’argilla. Abbiamo un ristorante dove la cuoca è un’attrice e le pizze sono dedicate ai divi di Hollywood. Puoi ordinare una Marlon Brando con poco salame, una Robert De Niro o una Paul Newman piccante”.
Poi mi confida sottovoce: “Anch’io giro per Milano, te lo dimostro”. E in questa
penombra, tra i poster consunti di Charlie Chaplin, Che Guevara e Giacinto Facchetti, ha il sapore di una confessione sovversiva. Apre un album coi suoi acquarelli: c’è un trasloco in Via Giambellino con una gru che si allunga fino all’ultimo piano di un palazzo, una nevicata in Piazza Vetra e un assortimento di tram. “Quanto sono belli, sai che li vendiamo usati alla città di Los Angeles?”

I MELODICI SEGRETI DI UNA TRABANT A ROGOREDO (CronacaQui 15/11/2011)

Ogni grande città contiene dei magici anfratti, luoghi appartati dove si ha l’impressione che pronunciando un’antica formula segreta, o calpestando la botola di un pozzo oscuro, si possa accedere a dimensioni sconosciute, catapultati in un fantasmagorico viaggio nel tempo. Penso ai campielli veneziani di Corto Maltese, a “Napoli sotterranea” o al “Labirinto dei perduti” di Londra.
A Milano, l’ex metropoli della siderurgia, che proprio fra le carcasse degli stabilimenti dismessi sembra nascondere i segreti del suo sviluppo, o gli echi di contorte trame economiche, provo la stessa sensazione di mistero quando passo vicino ad una delle innumerevoli officine meccaniche della periferia. Sfasciacarrozze, depositi di rottami ferrosi, gommisti: appena ne incontro uno mi chiedo se smontando un carburatore o agitando una tanica di benzina avariata non decolli verso uno stravagante mondo onirico, o un’epoca diversa dalla mia.
Così tre giorni fa in Via Toffetti, nel cuore industriale di Rogoredo, quando scorgo una mezza Trabant station wagon sul tetto di un magazzino di ricambio pezzi, all’improvviso respiro atmosfere da Guerra fredda. Metanopoli e Ponte Lambro diventano Berlino Est e i camionisti spie russe dagli occhi di ghiaccio.


Poi arriva la scoperta clamorosa: un’impiegata esce dal container degli uffici e mi svela che quella vettura è stata utilizzata dagli U2 per girare un imprecisato video-clip. La sommergo di domande, ma non sa rispondermi. Chiedo di parlare col capo, ma non c’è e pare che sia irascibile e geloso del suo reperto. Insomma, dovrò cavarmela da solo, magari sfruttando la sesta “W” del giornalismo, come diceva Marcorè imitando Gianni Riotta: Who, What, When, Where, Why e Wikipedia. Sulla nota enciclopedia leggo che una serie di Trabant fecero da scenografia tra il 1992 e il 1993 allo ZOO TV Tour della band di Bono. Infine sul sito www.macphisto.net verifico che quei modelli hanno gli stessi motivi cromatici dell’esemplare di Rogoredo, e si trovano oggi agli Hardrock Cafe di Berlino e Amsterdam. Lo scoop è fatto, ma rimane ancora un mistero: dov’è finita l’altra mezza Trabant?